Hamas e la rivoluzione comunicativa del terrorismo

Hamas rivoluzione comunicativa terrorismo
Donatello D'Andrea
16/10/2025
Poteri

Dalla propaganda apocalittica dei primi anni 2000 alla sofisticazione comunicativa dell’era digitale, il terrorismo ha sempre investito nella narrazione.
Ma è con Hamas che si è consumata una cesura strategica profonda: il superamento del paradigma comunicativo di Al-Qaeda, in favore di una grammatica narrativa più fluida, mimetica e adattiva.

Mentre Al-Qaeda puntava su una comunicazione verticale, rigida, modellata su un impianto ideologico-religioso impermeabile ai codici dell’Occidente, Hamas ha scelto una strategia ibrida, capace di parlare tanto all’immaginario locale quanto alla coscienza progressista occidentale.
I video di Bin Laden erano pensati per incutere terrore; le immagini di Gaza, rilanciate da Hamas, cercano di suscitare empatia, identificazione, senso di colpa.

La differenza è profonda, e si riflette nella gestione della crisi, nella costruzione del consenso e nella manipolazione delle debolezze discorsive occidentali.
Se Al-Qaeda attaccava l’Occidente frontalmente, Hamas ne sfrutta le contraddizioni: usa i linguaggi dell’informazione, i codici dei diritti umani, la retorica della lotta contro l’oppressione.

È un cambio di paradigma: dalla propaganda del terrore alla comunicazione di prossimità.

Hamas ha compreso che la questione palestinese, così densa di sofferenza e simboli, si presta a una narrazione fortemente emotiva, capace di attecchire in un’opinione pubblica occidentale sempre più ostile a Israele, dove la solidarietà automatica verso la causa palestinese spesso sconfina in un antisemitismo militante mascherato da impegno umanitario.

Sfruttando questa inclinazione, Hamas ha trasformato il proprio apparato comunicativo in un sistema sofisticato di produzione di consenso. Ha costruito la figura della vittima resistente e ha alimentato (a suon di miliardi dei metanieri del Qatar) bolle informative nelle quali l’empatia selettiva prevale sull’analisi.
In questo modo, la vicenda smette di essere solo politica: diventa comunicativa, anzi, algoritmica.

Hamas e l’adattamento strategico della comunicazione

La comunicazione di Hamas, perciò, non è più soltanto uno strumento di reclutamento o di rivendicazione: è diventata una leva strategica nella gestione del consenso globale e della legittimazione politica, in particolare nei confronti dell’Occidente.

Al-Qaeda, pur avendo rivoluzionato la propaganda terroristica tra anni ’90 e primi 2000, si era limitata a usare un linguaggio religioso e anti-occidentale, con un messaggio chiuso, simbolico e spettacolare (si pensi all’11 settembre), che trovava risonanza perlopiù in ambienti radicalizzati.
Hamas e i suoi finanziatori, invece, hanno scelto una comunicazione più fluida, adattabile e trasversale, che si insinua nei codici culturali, linguistici e valoriali delle nostre opinioni pubbliche.

Attraverso piattaforme come Telegram, X/Twitter, Instagram e mobilitando reti di attivisti digitali, Hamas ha costruito una narrazione multistrato:

  • Agli arabi parla di resistenza e di guerra santa;
  • Agli osservatori internazionali parla di diritti umani, di giustizia sociale e di anticolonialismo.

È una comunicazione situazionale, capace di mutare tono, registro e contenuto a seconda del pubblico: religioso e identitario per le masse arabe, giuridico e moralizzante per l’Occidente.

Questa strategia si regge su tre pilastri:

  1. Vittimismo strategico: Hamas si presenta come vittima di un’aggressione sistematica, facendo leva sulla sensibilità occidentale per i diritti umani, in particolare attraverso immagini di bambini feriti, madri disperate, ospedali colpiti. È una forma di “emotional branding” del conflitto, che mira a generare empatia istintiva, prima ancora della comprensione razionale dei fatti.

  2. Disintermediazione digitale: bypassando i media tradizionali, Hamas costruisce una relazione diretta e orizzontale con le opinioni pubbliche globali. L’informazione non è più mediata da testate giornalistiche, ma circola in forma di video, meme, fotografie, testimonianze virali. È la memetica della guerra, in cui l’impatto visivo supera quello contenutistico.

  3. Appropriazione discorsiva: Hamas non rifiuta i valori occidentali, ma li manipola: parla di “apartheid”, “colonialismo”, “autodeterminazione”, non più come slogan anti-imperialisti, ma come categorie universali svuotate dal loro contesto originario e riutilizzate per ottenere legittimità. In questo modo, chi critica Hamas rischia di apparire complice dell’oppressione, mentre chi lo difende viene sedotto dal linguaggio della giustizia.

La costruzione di bolle cognitive sui social, poi, non è un effetto collaterale, ma parte del progetto comunicativo di Hamas. Le piattaforme stesse facilitano la ripetizione di contenuti affini al profilo di ogni singolo utente, mentre il messaggio “pro-Palestina” viene continuamente rinforzato da retweet, condivisioni ed endorsement. Così, chi entra in quella bolla vede solo immagini e racconti che rafforzano la narrazione del Movimento come vittima sacrosanta.
Le voci critiche — pur esistenti — non penetrano: vengono filtrate, oscurate o ridotte al silenzio. È un processo di auto-rinforzo narrativo, dove la piattaforma e il contenuto convergono per isolare l’audience dalla visione complessiva.

Il caso di Saleh Aljafarawi, noto come “Mr. Fafo”, è emblematico. Influencer con milioni di follower, alternava ruoli performativi in video (padre in lutto, medico, vittima) con narrazioni professionali da “giornalista” (il tutto attirandosi accuse di appropriazione indebita di fondi umanitari).
Dopo che è stata diffusa la voce della sua morte in uno scontro interno tra fazioni palestinesi, è stato rappresentato in Occidente e sui social come “giornalista ucciso da Israele”, senza alcuna analisi critica o approfondimento.
Il suo caso riassume il potere della falsificazione performativa nella comunicazione di Hamas: produrre finzione, presentarla come verità e ricavarne consenso.

La seduzione delle contraddizioni: tra empatia selettiva e manipolazione della colpa

La forza comunicativa di Hamas si fonda quindi sulla capacità di sfruttare le contraddizioni interne dell’Occidente.

Il gruppo islamista non propone lo scontro di civiltà, ma denuncia una presunta incoerenza dell’Occidente con i propri ideali. In questo modo, il giudizio morale viene spostato: non sulla violenza di Hamas, ma sulla presunta ipocrisia delle democrazie occidentali.

E così, nel 2025, Hamas può:

  • Giustiziare in pubblico presunti collaborazionisti a Gaza;
  • Reprimere clan rivali come i Dughmush (13 e 14 ottobre 2025);
  • Impadronirsi degli aiuti internazionali per finanziare la propria rete di potere (come ha documentato persino l’ONU, di solito molto accondiscendente);

senza che l’eco mediatica occidentale superasse la soglia della denuncia episodica. Perché? Perché il frame dominante è ancora quello della “resistenza legittima”.

Tuttavia, questa strategia non è priva di rischi. Il pericolo reale non è l’eccesso di comunicazione, ma la sua semplificazione estrema. Quando ogni crisi, ogni bombardamento, ogni vittima è ridotta a simbolo emotivo senza contesto storico, politico o strategico, la questione palestinese diventa una icona monocromatica, irreversibile.

In questo scenario, non importa chi governa a Gaza, quali siano i rapporti interni, quali le alleanze arabo-israeliane: tutto viene letto attraverso la lente univoca della resistenza eroica. È così che qualsiasi proposta di negoziato, mediazione, transizione istituzionale diventa un tradimento.
Ecco perché il rischio più grande non è la propaganda ma la cancellazione delle sfumature, l’oscuramento della realtà in favore di una narrazione unica.

Hamas ha reinventato la comunicazione del terrore non puntando sull’ideologia, ma sulla sensibilità dell’altro. Ha intuito quali fossero le crepe dell’Occidente — la sua ossessione per le presunte colpe del passato, la sua attenzione selettiva, la sua emotività attivata a comando dagli algoritmi — e le ha trasformate in strumenti di propaganda.

Ma nel momento in cui la comunicazione diventa la vera arena del conflitto, il rischio è la semplificazione permanente: ridurre Gaza a un simbolo, la Palestina a un hashtag, la resistenza a un’estetica del dolore. La vittima mediatica sostituisce il cittadino politico, e la guerra si gioca non sul campo, ma nella timeline.

La questione palestinese, svuotata di storia e politica, rischia di diventare solo una questione di percezione, a beneficio di chi ne controlla il frame dominante.

E chi ne controlla il frame dominante, al momento, non è interessato al bene dei palestinesi, ma solo a restare disperatamente aggrappato al potere.