Un’alba fragile, un dovere per l’Occidente – Lettera dall’ombra di un russo europeo
Vi scrivo dalla Russia, da una Mosca che conosco e che mi è estranea al tempo stesso. Qui, nel silenzio dei giornali asserviti e nella violenza costante della propaganda, la parola “pace” non è che un’eco lontana. Eppure, oggi, da migliaia di chilometri, giunge una notizia che ha il suono di una promessa: in Palestina e in Israele la guerra tace, almeno per un istante. È stata annunciata una tregua, e per la prima volta dopo anni di sangue e macerie, le piazze urlano non più di terrore, ma di gioia.
Lo ripeto: è fragile, incrinata, imperfetta. È un vaso rotto che pure riesce a dissetare. Ma proprio per questo vale doppio, perché mostra che la speranza può riaccendersi anche quando sembra spenta per sempre. Chi ieri piangeva oggi danza, chi ieri era ostaggio oggi alza le mani al cielo. Non è la pace definitiva, lo sappiamo. Ma è un inizio, ed è nostro dovere custodirlo.
La pace come sfida universale
Da russo che crede nell’Europa, io non vedo in questa tregua soltanto un fatto locale. Essa parla all’intero Occidente. Dimostra che la pace non è un’utopia astratta, ma un compito politico concreto, da assumere e difendere. E ci ammonisce: se non difesa, la pace è divorata dal cinismo delle autocrazie.
So bene di cosa parlo. Il regime di Putin vive di menzogna istituzionalizzata. Governa secondo due regole che Machiavelli avrebbe riconosciuto: la forza finché la forza basta, l’astuzia quando la forza non basta più. È un pensiero antico che oggi si veste di strumenti moderni: manipolazione mediatica, costruzione di nemici esterni, colonizzazione del discorso pubblico attraverso la post-verità.
Non è un caso se il Cremlino trae vantaggio da ogni guerra che divide l’Occidente. Non è un caso se il massacro del 7 ottobre 2023, che ricordiamo come giorno di sangue e di orrore, è coinciso con il compleanno di Putin: la coincidenza, certo, è casuale, ma il modo in cui la propaganda russa l’ha sfruttata non lo è affatto. Quel giorno l’attenzione mondiale si spostò dall’Ucraina al Medio Oriente. Per il Cremlino fu un dono inatteso.
Italia, laboratorio fragile
In questo contesto l’Italia, più di altri Paesi, è vulnerabile. Già negli anni Settanta fu laboratorio di violenza politica, di terrorismo rosso e nero, di infiltrazioni esterne e interne che usarono il disagio sociale come arma. Nel 2002 l’assassinio di Marco Biagi ricordò ancora una volta quanto sia sottile il confine fra conflitto sociale e destabilizzazione politica.
Oggi lo schema si ripete. L’Italia è polarizzata: da un lato un governo che rifiuta il riconoscimento dello Stato palestinese, dall’altro un’opposizione che cavalca il malcontento delle piazze. In mezzo, l’incapacità di costruire una linea comune. È esattamente ciò che la propaganda russa auspica: un Occidente diviso, incapace di custodire neppure i propri principi fondamentali.
Non inganniamoci: le dichiarazioni di figure marginali ma rumorose, come chi proclama apertamente di essere “anti-Nato e anti-Meloni”, non sono soltanto folklore politico. Sono segnali. Sono indizi di una strategia che cerca di minare ogni spazio di moderazione, rafforzando estremismi speculari.
Una storia che ammonisce
Chi conosce la storia russa non può stupirsi. Dalla spartizione della Polonia nel XVIII secolo, alle guerre zariste per il Mar Nero, fino all’espansione sovietica dopo il 1945, Mosca ha sempre cercato di spingere i propri confini verso l’Europa. L’arma è cambiata: ieri l’esercito, oggi la disinformazione. Ma il fine è lo stesso.
E noi occidentali spesso dimentichiamo che la libertà è fragile. Ci affidiamo a un pacifismo ideologico che può avere radici nobili ma che, piegato dalla propaganda, diventa strumento di divisione. Fingiamo di credere che la NATO sia il vero pericolo, dimenticando che senza la sua esistenza mezza Europa sarebbe rimasta dietro il Muro.

Custodire l’alba
Ecco allora perché la tregua in Palestina ci riguarda. Non possiamo limitarci a commuoverci per i bambini che sorridono a Gaza o per le madri che abbracciano i figli liberati in Israele. Dobbiamo capire che questa tregua è anche un messaggio a noi: se l’Occidente non sa custodire la pace quando appare, non sarà mai in grado di difenderla quando è minacciata.
È qui che entra in gioco la dignità. Dignità significa riconoscere le nostre colpe storiche senza usarle come alibi per la paralisi. Significa capire che l’Occidente, pur imperfetto, resta oggi l’unico spazio dove libertà e diritti non sono parole vuote. Significa unirsi quando le autocrazie cercano di dividerci, e non rinunciare al compito di pacificare.
Conclusione: il dovere dell’Occidente
Oggi, da questa tregua fragile, parte un appello. Noi, occidentali, dobbiamo scegliere se farla germogliare o lasciarla spegnere. Non è questione di simpatia per questo o quel governo, non è questione di partiti. È questione di civiltà.
Io vi scrivo dall’ombra, ma come parte dell’Occidente. Non come spettatore, ma come fratello. Perché anche noi russi che resistiamo al regime sappiamo di appartenere a una storia comune europea.
Lo so: è ancora notte. Ma in Palestina e in Israele, un raggio d’alba si è acceso. È fragile, lontano, ma reale. E non appartiene a un popolo solo: appartiene a tutta l’umanità.
Il nostro compito è custodirlo, difenderlo, farlo crescere. Perché se lo lasciamo spegnere, avremo consegnato la vittoria alle autocrazie. Se lo difendiamo, potremo dire di aver dato un senso, ancora una volta, alla parola “Occidente”.









