Il tramonto economico della Russia (o, meglio, della Corea dell’Ovest)

Qualche giorno fa, i servizi segreti ucraini hanno diffuso delle presunte email di Elvira Nabiullina, governatrice della Banca Centrale di Mosca, che dava l’ordine di stampare in tre mesi 150 miliardi di rubli. Una mossa che, se davvero venisse fatta, raddoppierebbe di netto la quantità di moneta in circolazione.
L’inflazione sarebbe talmente incontrollabile da sprofondare la Russia non in un nuovo 1991, ma addirittura in un nuovo 1918, quando Lenin, isolato dal mondo, incapace di riscuotere le tasse e bisognoso di coprire i costi della guerra civile, stampò talmente tanti rubli da azzerarne il valore costringendo intere regioni a regredire al baratto.
Non a caso, con ogni probabilità la fuga di notizie è stata solo un’operazione psicologica degli uomini di Budanov, che infatti non è stata ripresa dalle grandi testate internazionali di economia come Bloomberg o il Financial Times.
Eppure, anche se notizie del genere sono esagerate, è un fatto che la macchina industriale e finanziaria di Vladimir Putin sia visibilmente ormai inceppata su tutti i fronti.
Il copione è simile a quello che si vide alla fine della Guerra Fredda: crollo delle entrate petrolifere combinato con l’impennata delle spese militari (che ormai in Russia superano i 140 miliardi di euro all’anno, più di quanto l’Italia spende per la sanità e l’università sommate).
Il cambio di rotta degli arabi del Golfo
Il merito indiretto va al principe saudita Bin Salman, che, insieme ai suoi alleati minori dell’OPEC, all’inizio di quest’anno ha deciso di inondare i mercati globali di petrolio, aggiungendo ogni mese tra i 400.000 e i 600.000 barili quotidiani e facendo crollare il prezzo.
Il petrolio del Golfo, infatti, è molto meno costoso da estrarre rispetto a quello dell’Artico o allo shale oil americano: quando il prezzo scende troppo, Bin Salman e soci continuano ad avere un margine, mentre i loro rivali lo vedono sfumare quasi del tutto, lasciando il mercato nelle loro mani.
Ora, fino alla fine del 2024 i sauditi si erano illusi di poter continuare ad “avere la moglie ubriaca e la botte piena”, cioè a dominare il mercato tenendo anche i prezzi alti. A ciascun paese OPEC erano state imposte delle quote di produzione che non doveva superare.
Ma la reazione a catena innescata dalle sanzioni euroatlantiche alla Russia aveva spinto paesi come il Kazakistan a infischiarsene delle quote OPEC, per diventare i nuovi fornitori dei clienti che un tempo erano stati di Putin.
Dopo aver atteso e pazientato per mesi, i sauditi hanno quindi deciso di accettare “la nuova realtà sul campo” (per usare una formula cara ai putiniani) e di rimuovere le quote, rinunciando al prezzo alto pur di salvare il proprio dominio del mercato.
E così, nella prima metà del 2025, il prezzo del greggio si è ridotto a oscillare tra i 55 e i 70 dollari al barile, e le sanzioni antirusse hanno ricominciato finalmente a mordere come all’inizio del 2023.
Due anni di ritardo che sono costati al popolo ucraino migliaia di vittime e sofferenze inumane, mettendo sotto pressione anche l’esercito, che fatica a riempire i ranghi per sostituire gli oltre 400.000 caduti e feriti.
Ma l’Ucraina, come abbiamo scritto più volte, era stata consapevolmente destinata a questo calvario dalla prudenza di Joe Biden, che per non rischiare rappresaglie nucleari russe fece in modo da mettere il paese cosacco in grado di resistere ma non di vincere.
Adesso, grazie alle sanzioni e al colpo di fortuna sui prezzi del petrolio, l’economia di guerra russa si sta sgretolando e per gli ucraini (se non perderanno prima la loro lotta interna contro la corruzione) la liberazione diventa una speranza concreta.
Vediamo, settore per settore, i segni di questo sgretolamento.
Energia fossile
Nella prima metà del 2025, i ricavi dalla vendita di gas e prodotti petroliferi si sono aggirati sui 50 miliardi di euro (17% meno della prima metà del 2024). Solo a giugno, dopo la stretta europea e britannica su centinaia di navi della “flotta ombra”, il calo è stato quasi del 34% rispetto al giugno 2024.
Tre corporation petrolifere (Gazpromneft, Surgutneftegaz e Russneft) sono ormai in perdita, mentre altre tre hanno ridotto drasticamente i profitti (Rosneft -74%, Lukoil -82%, Tatneft -45%) rispetto ai primi mesi del 2024.
Ancora più critica è la situazione delle corporation del gas, che avevano l’Europa come cliente pressoché esclusivo. Esportazioni ripiombate ai livelli del 1970, 47% di ricavi in meno rispetto a un anno fa, 60 miliardi di metri cubi di gas invenduti che non si sa come smaltire, il valore di mercato di Gazprom sceso a soli 38 miliardi (meno dell’azienda di giocattoli Pop Mart, ironizza il web) e un Cremlino più rapace che mai che pretende per sé gran parte degli introiti.
Per evitare il fallimento del colosso metaniero, si è arrivati al paradosso: da luglio in diverse regioni della Russia le bollette sono aumentate di oltre il 20%.
Del tutto fuori mercato, invece, è finito il carbone russo, colpito sia dalle sanzioni che dal calo oggettivo della domanda globale. Già nel 2024 le perdite erano state tre volte superiori rispetto all’anno del Covid. Ora 51 aziende estrattrici di carbone su 179 (dati ufficiali) sono già fallite o a rischio fallimento.
È in questo contesto che l’Unione Europea ha trovato il coraggio di varare il suo 18° pacchetto di sanzioni, mentre Trump valuta di appoggiare la proposta del Senato americano di dazi al 100% sugli stati che acquistano prodotti energetici russi.
Difficilmente mosse del genere allontanerebbero dal Cremlino la Cina, ma già se riuscissero a sfilare l’India (che nel dubbio ha fatto sapere di aver trovato fornitori alternativi) darebbero ai petrolieri russi il colpo di grazia.
Immobili
Privato delle rendite fossili, Putin ha dovuto sospendere il programma di mutui agevolati dallo Stato (6 miliardi di euro all’anno) che aveva tenuto in vita col polmone artificiale il mercato immobiliare.
Così la bolla si è sgonfiata in fretta: le vendite di nuovi appartamenti sono calate del 38%, e ad oggi ci sono 55 milioni di mq invenduti (circa un milione di appartamenti secondo la media russa).
Le vendite di escavatrici e altre macchine per cantieri si sono dimezzate rispetto a un anno fa.
Del resto, i russi non vogliono saperne di accendere mutui normali: è già il secondo anno che la Banca Centrale tiene i tassi d’interesse sopra il 20%, il che fa costare i mutui intorno al 28%.
Al momento i debiti non riscossi dei privati cittadini russi si aggirano sui 20 miliardi di euro, e tutto lascia pensare che aumenteranno.
Trasporti
Dall’inizio della guerra i treni merci hanno trasportato sempre meno tonnellate di prodotti: da più di 1.200 miliardi all’anno si è passati a meno di 1.100.
C’entrano le sanzioni, che rallentano la manutenzione dei convogli, ma c’entra anche la carenza di personale ferroviario che è stato spedito al fronte.
Problemi simili hanno i trasporti via camion. Sommando le due tipologie, il volume delle merci spedite nei primi mesi del 2025 è paragonabile a quello dei primi mesi del 2021, a pandemia non ancora terminata.
Anche la flotta aerea civile russa, quasi tutta di fabbricazione occidentale, è rimasta a corto di componenti.
58 velivoli sono stati già messi fuori servizio, ed altri 700, che coprono il 90% dei voli passeggeri, sono a rischio (nel 2024 si sono contati oltre 210 atterraggi di emergenza per avarie contro i 160 del 2023.
Aeroflot, all’inizio di quest’anno, ha perso più di 40 milioni di euro, laddove all’inizio dell’anno scorso faceva ancora profitti.
I mutui strozzini, uniti a un aumento dei prezzi tra il 70% e l’85%, danneggiano poi il mercato dell’auto: un rappresentante di Avtovaz ha previsto per quest’anno una contrazione del 50% su tutti i modelli e del 33% sui propri. I dati ufficiali fino a giugno hanno registrato un -25%.
Industria bellica
Nelle ultime settimane hanno fatto scalpore le ingiunzioni legali di risarcimento che il Ministero della Difesa ha inviato alle aziende del complesso militare, per colpa di mancate consegne. Un milione è stato chiesto alla Uralvagonzavod, la fabbrica dei carri armati, 11 milioni alla Tupolev, che ripara o costruisce i bombardieri, 2,3 milioni alla Khrunichev, che produce missili balistici.
Ciò avviene in un contesto dove più di metà delle munizioni usate contro gli ucraini viene importata dalla Corea del Nord, mentre i droni vengono assemblati da schiavi africani con pezzi al 97% cinesi.
Non sbaglia chi, sul web, si diverte a chiamare la Russia “Corea dell’Ovest”: l’aggressione all’Ucraina sarebbe già finita da anni se Mosca non si fosse trasformata in una succursale industriale di Pechino, trattata con rispetto solo grazie al suo arsenale nucleare, in modo non troppo dissimile da Pyongyang.
Debito pubblico
Paralisi industriale e inflazione alta possono colpire qualunque paese, ma solo la Russia deve conciliarle con una spesa militare che si aggira intorno al 40% del bilancio pubblico.
Dove trovare il denaro per salvare le aziende in crisi, se 400 milioni al giorno vengono sprecati nel tritacarne ucraino?
Da un lato Putin sta attingendo al Fondo Sovrano dove confluivano (finché ancora esistevano) i proventi del petrolio. Contiene ancora l’equivalente di 44 miliardi di euro in yuan e oro.
Dall’altro, però, si sta indebitando. E molto.
Nella prima metà del 2025 ha contratto circa 33 miliardi di euro di debito pubblico (il triplo del 2024 e il doppio del 2023), gravato da interessi superiori al 14%.
A questi si aggiunge il “debito nascosto” contratto dal complesso delle industrie militari con la copertura dello stato, che già a gennaio raggiungeva la cifra folle di 400 miliardi di euro.
Ora, se nonostante tutti questi stimoli le maggiori aziende di ogni settore continuano ad andare in perdita o a tagliare la produzione, l’ultima carta rimasta da giocare potrebbe davvero essere la macchina da stampa dei rubli.
E le ultime volte che quella macchina è stata attivata sappiamo come è finita.
Ma sarebbe sciocco abbassare la guardia
Se i prezzi del petrolio non risaliranno, di qui alla metà del 2026 il tramonto dell’economia russa lascerà il passo alla notte fonda.
Certo, Putin potrebbe interrompere l’aggressione all’Ucraina, ma non è detto che verrebbe ricompensato con la rimozione delle sanzioni (tanto più se volesse tenersi le regioni conquistate finora).
Inoltre, uscire senza una vittoria totale da un conflitto in cui ha sacrificato un milione di russi (più l’influenza su Siria, Asia centrale e Caucaso meridionale) potrebbe essere fatale per la sua permanenza al potere. Dunque lo scenario più probabile è che proseguirà a tutta dritta fino al burrone.
Ma confidare solo in questo è una sciocchezza.
Putin, ad esempio, sentendosi all’angolo potrebbe giocarsi il tutto per tutto e assalire i paesi baltici per provare a spezzare la Nato.
L’Ucraina, dal canto suo, potrebbe avvitarsi in una crisi di malcontento contro alcuni metodi opachi del suo governo e contro l’assenza di difese aeree efficaci per i civili. Infine c’è la variabile Trump.
L’economia dà una mano nel vincere le guerre, ma nessun vento è buono per chi non sa dove vuole approdare.