L’unica pace possibile: il disarmo di Hamas e l’assunzione di responsabilità del mondo arabo

Sofia Fornari
30/07/2025
Poteri

C’è un punto fermo da cui ripartire per parlare, con serietà, di una pace possibile tra Israele e Palestina: Hamas deve arrendersi e deporre le armi. Su questo, per la prima volta, anche tre dei principali attori del mondo arabo – Qatar, Arabia Saudita ed Egitto – sembrano convergere. La loro iniziativa, resa pubblica in un comunicato congiunto, segna un primo passo nella giusta direzione. Ma, da sola, non basta. Se davvero si vuole costruire un futuro di pace e stabilità per la regione, questi stessi paesi dovranno assumere una vera leadership e farsi carico, fino in fondo, del processo di nation building della Palestina.

La richiesta rivolta ad Hamas di rinunciare al controllo di Gaza e accettare il disarmo è un fatto politicamente significativo. Per troppo tempo, il mondo arabo ha lasciato che la questione palestinese venisse sequestrata da attori estremisti, o strumentalizzata da potenze regionali come l’Iran, interessate più alla destabilizzazione che alla pace. Oggi, la dichiarazione di Qatar, Arabia Saudita ed Egitto rompe questo schema e apre uno spiraglio nuovo. È il riconoscimento netto che Hamas non può più essere parte della soluzione: è parte del problema.

Ma la pace vera – quella duratura, legittima, sostenibile – non si costruisce solo togliendo le armi a chi le usa per seminare terrore. Si costruisce offrendo un’alternativa politica credibile. E qui entra in gioco la responsabilità del mondo arabo, oltre che di Israele. Se davvero si vuole dare alla causa palestinese una prospettiva di riscatto e dignità, le leadership arabe dovranno andare oltre le parole. Servono azioni concrete: un piano strutturato per la transizione istituzionale a Gaza, la creazione di un governo ad interim autorevole, l’avvio di un processo di ricostruzione non solo fisica ma anche sociale, economica e amministrativa.

Non si tratta solo di inviare aiuti o di mediare tra fazioni. Si tratta di costruire, passo dopo passo, i pilastri di uno Stato palestinese vero. Uno Stato che abbia confini, istituzioni, sicurezza interna, capacità amministrativa e rappresentanza internazionale. Uno Stato che non sia una sigla, come quello che nascerebbe dai riconoscimenti preventivi evocati in Occidente, ma una realtà. E questo richiede un impegno strategico a lungo termine da parte dei paesi arabi più influenti, in grado di fornire risorse, legittimazione e garanzie.

Non si può nemmeno ignorare il fatto che l’Autorità Nazionale Palestinese, sotto la guida prima di Yasser Arafat e poi di Mahmoud Abbas, ha già avuto in passato l’occasione di confrontarsi ai tavoli con Israele, ottenendo importanti aperture e offrendo tuttavia risposte insufficienti. Il fallimento di quei negoziati non ha solo fermato il processo di pace: ha lasciato spazio al ritorno della violenza e alla radicalizzazione. È da quella storia che occorre imparare.

Solo allora, solo con una Palestina liberata dalla logica delle milizie e guidata da una leadership responsabile e rappresentativa, Israele dovrà e potrà confrontarsi con un interlocutore alla pari. E a quel punto, lo Stato ebraico dovrà fare la sua parte, riconoscendo i diritti legittimi dei palestinesi e rinunciando a ogni pretesa di annessione unilaterale dei territori contesi. Questi includono tanto aree centrali come Gerusalemme Est, simbolicamente e storicamente cariche di significato, quanto gli insediamenti più recenti in Cisgiordania, spesso considerati illegali non solo dalla comunità internazionale ma anche, in alcuni casi, dalla stessa giustizia israeliana.

Dovrà trattare lo Stato palestinese con rispetto, come partner nella sicurezza e nella coesistenza. Capiterà che nei confini della Palestina restino insediamenti di cittadini israeliani, a cui andrà garantita sicurezza ma che dovranno accettare di vivere sotto sovranità palestinese, così come già oggi Israele ha una robusta minoranza araba cui garantisce diritti e libertà. Una gestione complessa e matura.

Ma prima di arrivare a quel punto, la sfida è tutta interna al mondo arabo. Senza una vera assunzione di responsabilità da parte dei grandi della regione, l’iniziativa di questi giorni resterà una mera dichiarazione d’intenti. Se questo passaggio storico avverrà, allora l’Europa, gli Stati Uniti e il resto della comunità internazionale dovranno fare la loro parte per sostenerlo. Ma il baricentro del processo deve essere nella regione. Una regione che, se vorrà, potrà trasformare la tragedia in un’opportunità politica.