Riconoscere la Palestina? Sì, ma solo dopo la resa di Hamas e il suo scioglimento

Piercamillo Falasca
26/07/2025
Poteri

Partiamo da un dato di fatto: la guerra tra Israele e Hamas, riesplosa dopo il massacro del 7 ottobre 2023, ha prodotto una devastazione senza precedenti nella Striscia di Gaza. L’offensiva israeliana, condotta con l’obiettivo dichiarato di “sradicare Hamas”, ha lasciato sul terreno decine di migliaia di vittime civili. Interi quartieri sono stati rasi al suolo, le infrastrutture mediche e scolastiche annientate, centinaia di migliaia di persone costrette alla fuga. La contabilità dei morti è un esercizio inattendibile, anche perché non riescono davvero a distinguere tra civili e terroristi, ma la catastrofe umanitaria è inopinabile con decine di migliaia di vittime, in larga parte donne e bambini.

Le immagini di Rafah e Khan Yunis hanno suscitato indignazione globale. Le operazioni militari israeliane, condotte con un impiego massiccio della forza, sono oggetto di gravi accuse di crimini di guerra. Organizzazioni internazionali per i diritti umani e agenzie delle Nazioni Unite hanno documentato possibili violazioni sistematiche del diritto umanitario, e alcuni ufficiali dell’esercito israeliano sono al centro di indagini preliminari della Corte penale internazionale.

A rendere il quadro ancora più allarmante sono le dichiarazioni di alcuni ministri del governo Netanyahu, come Itamar Ben Gvir e Bezalel Smotrich, che parlano esplicitamente di una “Gaza israeliana” dopo il conflitto. Non si tratta più solo della distruzione di Hamas, ma di una possibile ristrutturazione permanente della geografia politica del Medio Oriente. In questo clima, l’idea stessa di uno Stato palestinese rischia di essere archiviata come illusione del passato.

È proprio in questa fase, paradossalmente, che alcuni governi europei – a partire dalla Francia di Emmanuel Macron – tornano a evocare il riconoscimento unilaterale della Palestina. Una mossa che risponde a un’esigenza morale comprensibile, quella di dare un segnale politico al popolo palestinese, ma che ignora la realtà giuridica e istituzionale. Il riconoscimento di uno Stato, infatti, non è un atto simbolico: è un riconoscimento di fatto di una statualità esistente. E oggi, la Palestina non ha né i requisiti tecnici né le condizioni politiche per essere considerata uno Stato pienamente sovrano.

Secondo il diritto internazionale, e in particolare la Convenzione di Montevideo del 1933, uno Stato esiste quando dispone di quattro elementi fondamentali: una popolazione permanente, un territorio definito, un governo effettivo e la capacità di intrattenere relazioni internazionali. Nessuno di questi elementi è pienamente soddisfatto dalla situazione palestinese attuale. La Striscia di Gaza è un campo di rovine sotto assedio, frammentato tra milizie di Hamas e alleati, incursioni israeliane e vuoti di potere. La Cisgiordania è invece divisa in un mosaico di zone sotto amministrazione israeliana, insediamenti e frammenti di competenza dell’Autorità Nazionale Palestinese, la cui legittimità è in continuo declino.

Non esiste oggi un governo palestinese unificato e legittimo in grado di rappresentare l’insieme del popolo palestinese. L’Autorità Palestinese è screditata, paralizzata e priva di controllo effettivo su Gaza; Hamas resta un’organizzazione militare e ideologica incompatibile con ogni logica di convivenza pacifica e democratica. In queste condizioni, parlare di “Stato di Palestina” è un esercizio di retorica diplomatica, non un riconoscimento fondato sulla realtà.

Sul piano internazionale, la Palestina ha ottenuto nel 2012 lo status di “osservatore non membro” all’ONU, e oltre 140 Paesi nel mondo hanno riconosciuto simbolicamente il suo status statale. Tuttavia, la richiesta di adesione piena all’ONU resta bloccata dal veto americano in Consiglio di Sicurezza, e, soprattutto, l’entità riconosciuta non dispone di un territorio effettivamente sovrano né di una struttura statuale funzionante. In altre parole, si riconosce un’aspirazione, non un fatto.



Peggio ancora, riconoscere oggi la Palestina nelle condizioni presenti significherebbe legittimare un quadro istituzionale frammentato, privo di rappresentanza democratica, e in parte dominato da un’organizzazione – Hamas – che l’Unione Europea stessa continua a classificare come terroristica. Sarebbe, indirettamente, un premio alla strategia della violenza, e un segnale pericoloso a tutte le leadership in crisi: che si può ottenere legittimazione internazionale anche senza rispetto del diritto e senza capacità di governo.

Naturalmente, nessuno nega che esista un diritto del popolo palestinese all’autodeterminazione e a uno Stato proprio. Ma proprio per dare dignità a questo diritto, occorre dire la verità: lo Stato di Palestina potrà esistere solo dopo la fine del potere di Hamas, la ricostruzione delle istituzioni civili, la formazione di un governo legittimo e rappresentativo, e l’avvio di un percorso di riconciliazione con Israele. Solo allora ci saranno le condizioni – giuridiche, politiche e morali – per parlare di uno Stato vero, e non di una finzione.

Il rischio del riconoscimento anticipato è quello di congelare l’anomalia, di cristallizzare la divisione, di rafforzare i radicali. Ed è un rischio che nessuna diplomazia responsabile dovrebbe correre.