Respinti a Bengasi. Il plateale fallimento strategico europeo in Libia

Il respingimento della delegazione europea all’aeroporto di Benina, con ministri e commissari costretti a risalire in aereo senza incontrare il generale Haftar, è stato raccontato in Italia come una “figuraccia” diplomatica o un errore di gestione. Ma ridurre l’episodio a una colpa del singolo governo, o a un difetto tecnico di protocollo, significa non comprendere la crisi libica — e nemmeno il ruolo dell’Italia nel Mediterraneo.
Quella di Bengasi non è stata una piccola crisi diplomatica. È stato uno smacco deliberato, messo in scena con consapevolezza, che ha mostrato al mondo — e ai libici — la fragilità del potere europeo e italiano in Libia. Non di un singolo governo, ma dello Stato italiano nel suo insieme, come attore politico dotato di continuità, riconoscibilità e capacità d’influenza.
Questa distinzione è cruciale. Il problema non è nato ieri. Da almeno un decennio, l’Italia ha rinunciato a costruire una strategia mediterranea autonoma, oscillando tra priorità immediate — ENI, migrazione, stabilità — e pressioni contraddittorie degli alleati. Non ha mai convertito la prossimità geografica in un’influenza reale. Ha evitato d’investire nel potere coercitivo e simbolico, illudendosi di poter fungere da mediatore senza strumenti per esserlo.
Il paradosso è evidente: l’Italia si percepisce come potenza naturale del Mediterraneo, ma si comporta come potenza residuale, priva di un’agenda propria. Bengasi ce lo ha sbattuto in faccia. Haftar, con un gesto tanto crudele quanto calcolato, ha dimostrato che l’Italia non è più un attore “necessario”.

Il vuoto strategico di lungo periodo
Chi interpreta l’incidente come un inciampo del governo attuale sbaglia. La crisi di Bengasi rivela una mancanza strutturale: l’assenza di una politica estera italiana. Non di questo o quel governo, ma di tutti gli esecutivi che si sono succeduti. È lo Stato italiano a non aver mai investito nel proprio capitale strategico nel Mediterraneo.
Comprendere davvero la Libia di oggi significa superare la visione semplificata di uno Stato fallito con due governi rivali. La Libia del 2025 è un ecosistema politico frammentato, un caso emblematico di post-statalità armata, dove il potere è conteso tra attori armati, reti clientelari e influenze straniere.
Dalla caduta di Gheddafi nel 2011, non è mai esistito un vero processo di costruzione statale. Le milizie nate durante la guerra civile si sono trasformate in strutture politiche autonome, spesso più solide delle istituzioni nate sotto l’egida ONU. Il risultato è un mosaico di poteri locali capaci di imporsi e negoziare direttamente con attori esterni.
Il potere reale: milizie, petrolio e deterrenza reciproca
Il Governo di Unità Nazionale (GUN), riconosciuto internazionalmente, controlla solo nominalmente gran parte del territorio. Il suo potere reale deriva dalla cooptazione delle milizie di Tripoli, con equilibri costantemente instabili. L’uccisione del comandante Ghaniwa da parte della Brigata 444 ne è una prova concreta: lo Stato libico non possiede alcun monopolio della forza.
Questo sistema ibrido non è un’anomalia, ma il risultato di un ordine negoziato: evitare la guerra civile spartendo risorse e influenza. La Banca Centrale Libica, con sede a Tripoli, gestisce i proventi del petrolio estratto a est e li distribuisce anche ai rivali.
A est, in Cirenaica, Haftar ha costruito un dominio personalistico e militarizzato, legato a reti claniche e al sostegno di attori esterni. Ma anche il suo potere è precario: come quello di Tripoli, è soggetto a flussi finanziari e alleanze fluide. Nessuno può eliminare l’altro, e ogni tentativo di riforma viene percepito come minaccia esistenziale.
La Libia come campo di battaglia geopolitico
Le potenze esterne giocano un ruolo chiave. La Turchia ha trasformato il suo appoggio al GUN in un investimento strategico, ottenendo in cambio infrastrutture, accordi marittimi e influenza politica. La Russia, dal canto suo, ha costruito basi militari e mantiene una presenza stabile con l’Africa Corps.
L’Egitto e gli Emirati Arabi Uniti sostengono da anni Haftar, considerandolo un baluardo anti-islamista. L’Unione Europea invece è rimasta in una posizione ambigua e inefficace, incapace di esprimere una linea condivisa.
La Libia del 2025 non è solo instabile: è un campo di battaglia geopolitico, in cui la frammentazione interna è la leva con cui gli attori esterni esercitano potere. Ogni tentativo di centralizzare il potere senza tenere conto di queste realtà è destinato al fallimento.

L’ambizione italiana senza strumenti
L’Italia è al contempo esposta e invisibile. Con legami storici, una posizione geografica cruciale e interessi diretti, continua a oscillare tra ambizione diplomatica e impotenza operativa. Non ha mai costruito una dottrina mediterranea, né ha saputo coniugare diplomazia, cooperazione economica e credibilità coercitiva.
L’episodio di Bengasi ne è l’esempio più evidente. Haftar ha imposto la sua agenda. Non ha solo respinto una delegazione: ha detto all’Europa “riconoscetemi o andatevene”. La strategia ambigua italiana ed europea — formalmente con Tripoli, ma operativamente con entrambi — è esplosa.
La diplomazia burocratica dell’Italia, fatta di tavoli di crisi e dichiarazioni vaghe, non è stata all’altezza. Al contrario, la Turchia e la Russia hanno investito risorse reali. L’Italia si è limitata a finanziare la Guardia Costiera libica e tutelare gli interessi ENI, senza visione d’insieme.
Il protocollo come strumento di legittimità
Il comunicato di Bengasi, firmato dal premier Osama Hammad, è un manifesto politico, non una formalità. Accusa l’Europa di violare la sovranità libica e chiede pari dignità per il governo orientale. In un contesto frammentato come quello libico, la forma diplomatica è sostanza politica.
Il protocollo concordato con Bruxelles prevedeva un incontro con il solo Haftar come “comandante militare”. Ma l’imboscata diplomatica era già pronta: tutti i ministri di Bengasi schierati per ottenere una legittimazione implicita. La missione si è trovata senza strumenti: o accettare la foto o subire l’umiliazione.
In diplomazia seria, ogni dettaglio va negoziato in anticipo. Ma qui è mancata un’attenzione maniacale ai particolari, sostituita da una sottovalutazione strutturale del contesto. Il tentativo di visitare Tripoli e Bengasi nello stesso giorno ha solo inasprito la contesa.

Roma e Bruxelles senza strategia
Il fallimento della missione europea è un promemoria delle contraddizioni della politica estera europea. La Libia è stata trattata come un dossier tecnico, mentre è un campo di battaglia politico. Invitare i libici a tavoli “neutrali” ha solo consegnato ad Haftar l’occasione per affermarsi come interlocutore di pari livello.
Il comunicato libico non è solo un atto d’accusa, ma una sfida strategica: con chi vogliamo costruire la Libia di domani? Con Dbeibah? Con Haftar? Con un sistema tribale? La risposta a questa domanda definisce la nostra presenza — o la nostra assenza — nel Mediterraneo.
La diplomazia come arte del conflitto ordinato
La diplomazia non è buone maniere o cortesia istituzionale. È l’arte di stabilire gerarchie, trasformare interessi in regole, conferire o negare legittimità. In un contesto come la Libia, dove ogni gesto ha valore politico, il protocollo è già politica. E l’incapacità italiana ed europea di gestirlo ha prodotto delegazioni fermate in aeroporto, mediatrici umiliate, propaganda regalata agli avversari.
Lo smacco di Bengasi non è un errore tecnico: è la plastica manifestazione di un vuoto strategico. Da anni, l’Italia dichiara la Libia priorità nazionale, ma non ha mai deciso chi sostenere, con quali strumenti e in base a quali interessi.
L’intera Unione Europea continua a trattare il Mediterraneo come una pratica tecnica, mentre altri lo vivono come un’arena di potere reale. La Libia rischia di diventare il simbolo di questo fallimento strategico.
Serve una svolta politica, non un protocollo migliore
Per evitare questo destino, serve una svolta culturale. Bisogna accettare che la diplomazia è un conflitto ordinato, non un esercizio di buone intenzioni. Che la legittimità internazionale si costruisce negoziando i rapporti di forza reali. E che in un Mediterraneo competitivo, l’Italia deve scegliere se essere partner credibile o spettatore irrilevante.