Dazi: forse non “abbiamo perso”, ma il nostro stile diplomatico non regge più

roman barbarian
Donatello D'Andrea
31/07/2025
Interessi

C’è un’immagine che sintetizza la natura dell’accordo commerciale raggiunto a Turnberry tra Stati Uniti e Unione Europea: Donald Trump seduto accanto a Ursula von der Leyen, che dichiara sorridente “We made it”, mentre la leader europea appare stanca, diplomatica, quasi complice di una regia che non le appartiene.

Non è una scena qualunque. È l’ennesimo episodio di una diplomazia diventata spettacolo, dove chi sa dettare i tempi dello show impone anche le regole del gioco.

Perché ciò che si è consumato in Scozia non è un semplice compromesso commerciale. È il manifesto plastico del nuovo ordine comunicativo e strategico internazionale: un presidente-performer che, tra minacce, tweet e conferenze stampa spettacolarizzate, conquista tutto senza mai veramente negoziare. E una controparte europea che, ancora una volta, arriva (almeno in apparenza) disunita, fragile e senza una narrazione forte.

L’accordo siglato prevedeva dazi del 15% sulle merci europee esportate negli USA, insieme a vaghi annunci unilaterali (presto ritrattati da un documento ufficiale della Commissione) su investimenti UE per oltre 600 miliardi di dollari in America, acquisti energetici per 750 miliardi e concessioni commerciali sbilanciate.
La maggior parte dei commentatori non ha avuto dubbi: è la definitiva sconfitta del metodo tradizionale della diplomazia europea e decreta il trionfo della diplomazia performativa, incarnata e perfezionata da Trump: quella fatta di scenografie simboliche, minacce pubbliche e una strategia mediatica che anticipa, accompagna e sostituisce la trattativa.

Un accordo che appare sbilanciato e mostra una diplomazia europea debole

Sotto il profilo tecnico, l’intesa raggiunta lascia ben pochi dubbi: gli Stati Uniti impongono dazi del 15% su gran parte delle esportazioni europee, compresi automobili, farmaci e beni manifatturieri. Sull’acciaio, inoltre, si resta con dazi al 50%. In cambio, l’Unione Europea ottiene la rimozione di alcuni dazi su aerei, semiconduttori e chimica fine, ma si impegna ad acquistare volumi ingenti di energia e ad aumentare i propri investimenti negli Stati Uniti. La Germania, maggiore esportatrice UE verso gli USA, ha ottenuto soltanto un rinvio sulla questione dell’automotive, mentre settori come la farmaceutica – storicamente centrali – sono rimasti dentro l’accordo a condizioni sfavorevoli.

Si può discutere a lungo se, sul piano strettamente economico, un accordo più bilanciato (con dazi reciproci europei contro i prodotti statunitensi) sarebbe stato meno conveniente. Ma per i nostri esportatori, rispetto ai precedenti dazi del 2.5% (prima dell’era Trump), il salto è abissale.

A colpire però non è solo il contenuto, ma il metodo. Trump ha costruito l’accordo su un ultimatum performativo: minacce pubbliche, lettere formali, un’agenda compressa (“90 accordi in 90 giorni”) e un’impostazione da show televisivo. Ha alzato il livello del conflitto, ha messo pressione sui mercati e ha poi offerto una “via di uscita” mediaticamente vantaggiosa, ma sostanzialmente unilaterale.

Dall’altra parte, l’Unione Europea è apparsa paralizzata. Mancava una linea comune, mancava una leadership autorevole e mancava, soprattutto, un racconto.
Mentre Trump dettava i tempi e manipolava le percezioni, Bruxelles appariva incerta, tentennante, subordinata. Ursula von der Leyen ha cercato di salvare la faccia parlando di “bilanciamento” e “scambi vantaggiosi su alcuni settori strategici”, ma la realtà è che i nodi principali sono rimasti irrisolti – su acciaio, farmaci, automotive – o risolti a senso unico.

Il risultato è un nuovo assetto commerciale che dal punto di vista di Trump (anche se non per forza dal punto di vista dei consumatori americani) redistribuisce vantaggi agli USA lasciando all’Europa il compito di giustificare l’ingiustificabile: un’asimmetria che poteva – e doveva – essere negoziata diversamente.

Quando il soft power diventa soft war: Trump e la diplomazia performativa

L’accordo UE-USA non è soltanto un dossier economico. È una lezione di strategia comunicativa. Donald Trump ha applicato, in modo sistematico, ciò che possiamo definire diplomazia performativa: una modalità d’azione che combina minaccia simbolica, narrazione pubblica, manipolazione percettiva e creazione di eventi ad alto impatto emotivo.

Nella logica della diplomazia performativa, l’obiettivo non è soltanto l’accordo, ma la costruzione di un frame narrativo in cui il proprio ruolo emerga come dominante. Trump non ha negoziato in senso classico: ha costruito un palcoscenico, ha disseminato le sue intenzioni nei media, ha generato caos per poi presentarsi come risolutore.

Ha trasformato il tavolo dei negoziati in una piattaforma politica. Ha reso lo scontro con l’Europa un atto simbolico, utile a rafforzare il consenso interno e a mostrare forza verso l’esterno. In questo senso, l’UE non è solo un attore economico: è un bersaglio narrativo, utile a dimostrare la debolezza dell’“ordine liberale” e la forza della leadership muscolare.

Il punto non è solo che Trump ha ottenuto più di quanto gli analisti si aspettassero. È che lo ha fatto lasciando alla controparte il ruolo della spalla debole, della figura statica che reagisce anziché agire.
Von der Leyen, pur consapevole dell’importanza di un compromesso, è finita nel ruolo della “scolaretta”, come ha scritto un commentatore politico europeo, mentre il performer si prendeva applausi e titoli.

Sembrerebbe, dunque, che l’Europa sia rimasta l’ultima a trincerarsi dietro formule come “multilateralismo” e “regole comuni”, mentre i performer della politica internazionale – da Trump a Modi, da Putin a Xi – stanno scrivendo un nuovo alfabeto geopolitico. Un alfabeto fatto di visibilità, reazioni a catena, pressioni a orologeria e storytelling strategico.

La diplomazia classica si muove con lentezza. Quella performativa colpisce, segna, detta.
Non è detto che ciò renda la seconda più efficace: proprio ieri, ad esempio, l’India di Modi ha reagito con la stessa prudenza dell’UE all’annuncio trumpiano di dazi al 25%, e tra le concessioni che si sta preparando a fare c’è la rinuncia agli acquisti di petrolio russo a basso costo (una clausola non scritta del patto tra USA e UE?).

Ma l’Europa, se vuole davvero essere un attore globale, deve imparare a giocare questo nuovo gioco. Senza rinunciare ai suoi valori, ma sapendo che nel mondo multipolare di oggi non basta avere ragione: bisogna anche saperla raccontare.

L’Unione Europea non sa ancora cosa rappresenta

Da questo punto di vista, il problema non è solo Ursula Von der Leyen.
È l’intero assetto istituzionale europeo a mostrare crepe: la Commissione è spesso in prima linea senza avere dietro un esercito, e ciò che dovrebbe essere una leadership collettiva finisce per diventare un alibi per l’inerzia.
I leader nazionali si defilano, i compromessi intergovernativi diventano palude, e la Commissione rimane esposta e impotente. Se scegli di presentarti dinanzi a Washington in queste condizioni, lavori solamente per ridurre il danno, non per far ascoltare la tua voce.

Il paradosso è che l’Europa, sulla carta, possiede tutti gli strumenti per essere protagonista: capacità economica, potere normativo, esperienza multilaterale. Ma non riesce a trasformare questi elementi in potere politico strategico. E in un contesto dove la narrazione vale quanto (o più di) una trattativa, ciò spesso significa rinunciare a giocare.

Infine, non va dimenticato che la diplomazia performativa non è un’anomalia isolata, ma il nuovo ecosistema geopolitico. In esso si muovono attori carismatici, che semplificano, polarizzano, dominano la scena pubblica e ridefiniscono le categorie del potere. La Cina lo fa con la sua diplomazia simbolica, la Russia con la disinformazione strutturata, l’India con il nazionalismo spettacolarizzato.

Anche ammesso, perciò, che sul piano economico i dazi danneggino più gli americani che gli europei, e che in cambio della “resa” sui dazi Trump si sia impegnato a restare a bordo della barca dell’Ucraina, nessuno di questi benefici pratici cancella il danno d’immagine e di credibilità che l’Europa ha sofferto.

L’accordo con gli Stati Uniti certifica una mancanza di visione: quella di un’Europa che non ha ancora capito che il potere oggi non si esercita solo con regole e trattati, ma con simboli, parole, leadership e conflitto strategico. Pur evitando danni maggiori a livello economico, i dazi certificano una sconfitta politica e strategica di più grandi dimensioni.

A Turnberry non si è firmato soltanto un accordo commerciale: si è mostrato al mondo un (nuovo?) equilibrio tra Stati Uniti e Unione Europea, in cui il primo detta, e il secondo registra.
Si è mostrato il trionfo di una nuova grammatica del potere, in cui la visibilità pubblica, la pressione strategica, la narrazione efficace contano più della sostanza dei dossier.

Trump mediaticamente vince perché recita un copione che lui stesso ha scritto. Von der Leyen mediaticamente perde perché si trova costretta a recitare nel teatro di qualcun altro, senza mai riscrivere la scena.
E l’Europa, nel suo insieme, non riesce a parlare con una voce sola, a rappresentarsi come soggetto geopolitico unitario, a trasformare la sua forza economica in potere contrattuale e strategico.

La sfida per l’Europa non è solo quella di difendere i propri interessi economici, ma di tornare ad avere una voce riconoscibile nel mondo. O sarà sempre qualcun altro a parlare per lei.