L’Iran e la liberazione di Cecilia Sala: la realtà oltre la retorica

17/01/2025
Frontiere

Siamo tutti felici per la liberazione di Cecilia Sala, senza se e senza ma. Come iraniano, credo fermamente che nessuno debba passare neanche un secondo nelle prigioni della Repubblica Islamica dell’Iran. La gioia per la sua scarcerazione è indiscutibile, ma ora che la giornalista è finalmente sana e salva, è opportuno che questa vicenda diventi occasione per analizzare e discutere errori, dubbi e debolezze, evitando toni trionfalistici e retorici.

L’arresto di Cecilia Sala in Iran, seguito dalla sua detenzione nel notorio carcere di Evin, ha riportato l’attenzione sulla pratica della “diplomazia degli ostaggi” adottata dal regime di Teheran. Tale strategia, che prevede l’arresto di cittadini stranieri come strumento di pressione politica, è purtroppo consolidata. Il caso di Sala non è isolato, ma rappresenta la prosecuzione di un modus operandi con radici nella crisi degli ostaggi del 1979. Negli ultimi anni, almeno 22 cittadini occidentali sono stati arrestati e usati come pedine per ottenere concessioni economiche e politiche.

Se il modello era ben noto già prima dell’arresto di Sala, rimane da chiedersi quanta responsabilità abbiano coloro che le hanno consentito di operare in Iran, fornendole evidentemente mezzi materiali e professionali per farlo. Mi riferisco in particolare al suo editore, dal quale finora non è arrivata alcuna parola di scuse per aver messo a rischio la vita di Cecilia Sala, esponendo al contempo l’Italia a una situazione di debolezza e ricatto.

Inoltre, le dinamiche politiche che hanno portato alla sua liberazione sollevano dubbi sulle strategie che i governi occidentali dovrebbero adottare per evitare di subire simili ricatti da parte del regime islamico, il quale ne ricava significativi vantaggi geopolitici e diplomatici.



Una gestione confusa e incoerente

Un fattore decisivo nella rapida liberazione di Cecilia Sala sembra essere stato l’incontro tra la Presidente del Consiglio italiano, Giorgia Meloni, e Donald Trump a Mar-a-Lago, nel gennaio 2025. Durante la visita, Meloni avrebbe ottenuto da Trump un accordo informale per evitare l’estradizione di Mohammad Abedini Najafabadi negli Stati Uniti, un tecnico iraniano accusato di legami con il Corpo delle Guardie Rivoluzionarie Islamiche e di essere coinvolto nella produzione di droni per il regime. Questo incontro ha assunto notevole rilievo, poiché Trump considera Meloni una delle sue principali alleate in Europa e ha accettato di assecondare la richiesta di Teheran di non estradare Abedini, in cambio della liberazione di Sala.

Le dichiarazioni del governo italiano sulla liberazione di Cecilia Sala rivelano una gestione confusa e incoerente, culminata nel tentativo di presentare l’operazione come un successo diplomatico. Tuttavia, la realtà appare ben diversa.

Fin dai primi giorni, le posizioni contrastanti dei rappresentanti governativi avevano lasciato intuire che fosse in atto uno scambio di prigionieri. Mentre il Ministro degli Esteri, Antonio Tajani, cercava di separare le vicende di Sala e di Mohammad Abedini Najafabadi, il Ministro della Giustizia, Carlo Nordio, spingeva per la revoca dell’incarcerazione di Abedini, facilitandone così la liberazione. Il rilascio quasi simultaneo di Sala e Abedini mostra come il vero vincitore di questa vicenda sia la Repubblica Islamica, che ha ottenuto esattamente ciò che desiderava.

Nonostante il governo italiano abbia cercato di presentare questa liberazione come una grande vittoria diplomatica, lo scambio di prigionieri era praticamente inevitabile, viste le circostanze e le dinamiche in gioco. Le contraddizioni nelle dichiarazioni ufficiali evidenziano una gestione poco trasparente e una serie di concessioni significative da parte dell’Italia, che ha ceduto alle pressioni del regime iraniano.

L’Italia ha scelto di arrendersi a Teheran

Purtroppo, l’Italia ha finito per piegarsi alla strategia degli ostaggi portata avanti dalla Repubblica Islamica, senza dimostrare né la volontà né la forza necessarie per svolgere un ruolo davvero risolutivo, come sarebbe stato auspicabile. Invece di opporsi con fermezza, il nostro Paese ha accettato lo scambio, rafforzando così la narrativa del regime. Inoltre, pare che l’Italia abbia recapitato a Donald Trump un messaggio del governo iraniano, lasciando intendere che eventuali controversie possano essere risolte attraverso la diplomazia. La Repubblica Islamica, preoccupata dal possibile ritorno di Trump alla Casa Bianca, sta infatti cercando alleati e mediatori per negoziare con gli Stati Uniti, mentre altri Paesi, come la Germania, hanno preso le distanze dal regime. L’Italia, invece, ha scelto di continuare a fungere da “via di uscita” per Teheran.

Subito dopo la notizia della liberazione di Cecilia Sala, si sono levate voci apologetiche e pro-regime. Giornalisti, autori e analisti italiani (tra cui alcuni italo-iraniani) si sono presentati sui principali canali televisivi e sulle principali testate per sostenere che si possa negoziare con l’Iran e raggiungere accordi. Secondo questi “esperti”, sarebbe possibile risolvere le controversie e migliorare le relazioni internazionali semplicemente sedendosi a un tavolo con il regime islamico.

È però fondamentale ricordare che la Repubblica Islamica non è un governo “normale”, bensì un regime che ha sostenuto terroristi e dittatori in varie parti del mondo, continuando a minacciare la stabilità regionale e la sicurezza globale. Inoltre, come sottolineano molti iraniani — non solo dissidenti, ma anche un’ampia parte della popolazione — la Repubblica Islamica non è considerata un rappresentante legittimo del popolo iraniano. La lotta contro il regime degli ayatollah accomuna milioni di cittadini che non vogliono essere governati da un potere che reprime e tortura gli oppositori.

Nonostante ciò, ci sono ancora numerosi esponenti del panorama mediatico italiano che sembrano sostenere la cosiddetta “linea riformista” della Repubblica Islamica. Questo atteggiamento finisce per fornire una legittimazione indiretta agli ayatollah e per mantenere in piedi un regime che, nei fatti, è lontanissimo dai principi di giustizia, diritti umani e democrazia. Dovremmo smettere di rilanciare la propaganda “riformista” e iniziare a riconoscere la realtà: un sistema che non mostra alcuna volontà di cambiare, ma anzi continua a rafforzarsi sfruttando le debolezze diplomatiche e gli errori di valutazione degli Stati occidentali.

Le condizioni di Evin e i rischi di fidarsi

Nessuno mette in dubbio che Cecilia Sala abbia vissuto momenti terribili durante la detenzione nel carcere di Evin. Nel suo primo podcast dopo il rilascio, ha parlato di forme di tortura psicologica, spesso chiamata “tortura bianca”. Tuttavia, i dettagli che lei stessa ha fornito — come il fatto di aver avuto del cibo, l’accesso a momenti all’esterno della cella e persino a un libro — mostrano che la sua esperienza, pur dolorosa, è stata diversa rispetto a quella di molti iraniani rinchiusi nello stesso luogo.

Per i detenuti iraniani accusati di opporsi al regime, Evin è un vero inferno in terra: condizioni disumane, torture fisiche e psicologiche continue, totale assenza di dignità umana. La differenza tra ciò che ha vissuto Sala e ciò che vivono i prigionieri politici iraniani evidenzia come, all’interno di Evin, il trattamento vari a seconda del profilo del detenuto e degli interessi specifici del regime.

Un altro aspetto significativo, emerso dal podcast, riguarda le precauzioni che Cecilia Sala avrebbe preso prima del viaggio. Secondo il suo racconto, si è affidata ai consigli di persone di fiducia nel suo cerchio di conoscenze, sia in Italia sia in Iran. Ciò solleva però dubbi sulla reale affidabilità di questi contatti. Per chi segue da anni il lavoro di Cecilia, infatti, è chiaro che il suo gruppo di riferimento potrebbe essere stato condizionato, seppur involontariamente, da individui vicini alle idee del regime o a una sua presunta “corrente riformista”, che però non coglie la vera natura del sistema politico iraniano.

Anche il fatto di aver chiesto aiuto a contatti in Iran per organizzare il viaggio si è rivelato un potenziale errore. In un momento così delicato, soprattutto dopo l’arresto in Italia di un membro del Corpo delle Guardie Rivoluzionarie Islamiche (IRGC), chiunque fosse al corrente della situazione avrebbe dovuto convincerla a rinunciare o, almeno, a lasciare il Paese subito dopo quell’arresto. Questa ipotesi trova conferma nelle indagini dei servizi segreti italiani, che stanno verificando eventuali falle nella rete di fiducia di Cecilia e possibili collegamenti tra le sue fonti locali e il regime iraniano.



Lezioni da trarre: l’importanza di racconti autentici

Tutto ciò non solo getta luce sulle dinamiche che hanno portato alla detenzione di Sala, ma sottolinea anche quanto sia fondamentale valutare con grande attenzione le fonti e i contatti prima di recarsi in un Paese come l’Iran, specialmente in un periodo di tensioni internazionali.

La liberazione di Cecilia Sala, pur accolta con sollievo, solleva quindi questioni cruciali sul futuro dei giornalisti stranieri in Iran. La Repubblica Islamica ha dimostrato chiaramente che il Paese non è più sicuro neppure per i reporter che adottano toni “soft” nei confronti del regime. Persino coloro che, magari per necessità o per speranza di un cambiamento interno, evitano di scontrarsi apertamente con le autorità e talvolta ne rilanciano la propaganda, si espongono a rischi analoghi a quelli corsi da Cecilia Sala. L’Iran non fa più sconti nemmeno a chi tenta di mantenere una posizione più conciliante: il regime sfrutta la buona fede dei giornalisti, che possono ritrovarsi intrappolati in una rete di menzogne e manipolazioni.

Mi auguro che Cecilia Sala, superato lo shock di questa traumatica esperienza, abbandoni qualsiasi atteggiamento “soft” verso il regime. Finora la sua posizione è apparsa piuttosto ambigua, contribuendo a diffondere l’illusione che si possa negoziare con un sistema che da 46 anni non mostra alcun segno di vera apertura. Spero decida di assumere una posizione più chiara, allineandosi a quei colleghi che non temono di sfidare apertamente l’ideologia del regime islamico. Questa esperienza, per quanto drammatica, potrebbe offrire a Cecilia l’opportunità di riconsiderare le sue idee, confrontandosi con voci più vicine al popolo iraniano, che da anni combatte contro l’oppressione degli ayatollah. Non può più ignorare le sofferenze reali del popolo iraniano, che rifiuta il regime, né restare in silenzio di fronte alla repressione della libertà di espressione, alla tortura e alle esecuzioni inflitte a chiunque osi ribellarsi.

Spero infine che questa vicenda insegni a Cecilia Sala l’importanza del ruolo di un giornalista: difendere la verità senza compromessi. Se ci sarà un insegnamento da trarre, sarà forse la consapevolezza che non è più il momento di avanzare con cautela, ma di schierarsi apertamente dalla parte della verità e di chi, in Iran, ha bisogno di una voce autentica, lontana dalle illusioni delle “riforme” o dalle negoziazioni con un regime che non ha alcuna intenzione di cambiare.