Le mine navali iraniane nello Stretto di Hormuz: strategia, deterrenza o bluff?

Vincenzo D'Arienzo
02/07/2025
Frontiere

Nelle settimane successive all’attacco missilistico israeliano del 13 giugno contro obiettivi in Iran, l’intelligence statunitense ha rilevato una mossa allarmante: l’esercito iraniano avrebbe caricato mine navali su alcune navi nel Golfo Persico. Una manovra potenzialmente pericolosa, che ha riacceso le preoccupazioni a Washington circa un possibile tentativo di Teheran di bloccare lo Stretto di Hormuz, uno dei colli di bottiglia (detti comunemente chokepoint) più strategici al mondo per il traffico energetico.

Lo stretto come leva geopolitica

La notizia, riportata da due funzionari statunitensi alla Reuters, aggiunge un nuovo livello di tensione a un quadro mediorientale già fortemente compromesso. Lo Stretto di Hormuz rappresenta infatti da sempre uno snodo cruciale per il commercio globale: oltre un quinto del petrolio mondiale vi transita ogni giorno. Qualsiasi ostacolo alla sua navigazione ha implicazioni immediate non solo per i Paesi della regione, ma per l’economia globale. Non è la prima volta che l’Iran minaccia, direttamente o indirettamente, di chiudere lo stretto come forma di deterrenza o rappresaglia contro sanzioni o azioni militari. Tuttavia, la novità di queste settimane sta nella combinazione tra una concreta preparazione tecnica (il caricamento delle mine) e l’ambiguità dell’intenzione politica: Teheran potrebbe aver voluto solo mostrare i muscoli, senza l’intenzione reale di colpire.

La deterrenza ambigua: segnale o messinscena?

I due funzionari americani citati dalla Reuters hanno suggerito che le operazioni iraniane potrebbero essere parte di una strategia di dissuasione, un modo per far credere agli Stati Uniti e ai loro alleati che l’Iran fosse disposto a tutto pur di difendere la propria sovranità. Ma è possibile che si tratti di una tattica di bluff, volta a guadagnare margine negoziale senza oltrepassare una soglia di conflitto diretto. Questo tipo di deterrenza ambigua rientra in una logica di “escalation gestita”, in cui i segnali vengono calibrati per aumentare la pressione diplomatica, senza però innescare una guerra su vasta scala.

Israele, Iran e la nuova fase del confronto a distanza

L’attacco israeliano del 13 giugno, che ha colpito strutture militari in territorio iraniano, ha segnato una nuova fase del confronto tra Israele e Iran, entrambi coinvolti — direttamente o per procura — nel conflitto regionale in corso, soprattutto attraverso le dinamiche in Siria, Libano, Yemen e Gaza. La risposta iraniana, per quanto contenuta sul piano militare diretto, si è giocata anche sul terreno della minaccia simbolica e strategica, come appunto il possibile blocco di Hormuz.

Un’interpretazione cauta per l’Unione europea

Per l’Unione europea, che ha tutto l’interesse a evitare una destabilizzazione ulteriore della regione del Golfo, la situazione impone un doppio livello di attenzione: da un lato, garantire la libertà di navigazione nello stretto; dall’altro, non lasciarsi trascinare in una spirale di escalation diplomatica o militare. La diplomazia europea dovrebbe incoraggiare una lettura moderata degli eventi, evitando di assecondare automatismi bellicisti e favorendo un ritorno al dialogo multilaterale sul dossier nucleare iraniano. L’Iran ha storicamente usato la leva della minaccia su Hormuz anche come strumento negoziale per ottenere concessioni in ambito economico e sanzionatorio.

La necessità di leggere i segnali, non solo le azioni

Il caricamento di mine navali da parte dell’Iran nello Stretto di Hormuz rappresenta un segnale chiaro, e non può essere minimizzato. Si tratta di un gesto che, al di là della sua portata operativa, riflette la volontà del regime di Teheran di esercitare pressione attraverso strumenti di destabilizzazione e minaccia, in una delle aree più sensibili per la sicurezza globale.



L’Occidente, in questo scenario, non può assumere una posizione neutrale. Difendere la libertà di navigazione e la stabilità energetica globale significa anche riconoscere che certi comportamenti, specie se reiterati, non possono essere considerati come semplici dinamiche regionali. L’Iran non è un attore imparziale, ma un regime che utilizza la tensione per consolidare la propria posizione interna e regionale, spesso in contrapposizione con i principi fondamentali delle democrazie occidentali.

Essere coerenti con gli interessi e i valori occidentali significa anche sviluppare una risposta strategica chiara, rafforzando il coordinamento con gli alleati (arabi inclusi) e promuovendo una politica estera che non si limiti alla gestione delle crisi, ma che contribuisca attivamente alla tutela dell’ordine internazionale.

Non si tratta di alimentare lo scontro, ma di evitare che l’ambiguità venga interpretata come debolezza.