Israele ha diritto alla difesa, non alla distruzione

Francesco Emanuele Celentano
30/05/2025
Poteri

Il principio di proporzionalità rappresenta uno dei pilastri del diritto internazionale umanitario, oltre che del buon senso. Questo impone che, anche laddove un attacco sia giustificato da esigenze di autodifesa o necessità militare, il danno causato ai civili o ai beni civili non sia eccessivo rispetto al vantaggio militare concreto e diretto previsto. La condotta dello Stato di Israele a seguito dei brutali attacchi terroristici perpetrati da Hamas il 7 ottobre 2023 si pone, ormai da tempo, in evidente contrasto con tale principio.

L’Operazione Alluvione Al-Aqsa, promossa da Hamas ha prodotto oltre 1.000 vittime israeliane e più di 200 ostaggi, in un attacco multiforme, coordinato e sanguinoso. Questi atti costituiscono violazioni gravi del diritto umanitario e rappresentano crimini di guerra che meritano, e hanno ottenuto da più parti, una condanna piena e senza attenuanti. Non vi può essere, mai, giustificazione giuridica o politica per il massacro deliberato di civili e per il ricorso alla violenza indiscriminata contro obiettivi non militari.

Israele, in quanto Stato sovrano, aveva il diritto e persino il dovere di difendere i propri cittadini. Ciononostante, il diritto internazionale non ammette ritorsioni illimitate. Al contrario, stabilisce limiti rigorosi all’uso della forza, anche nei confronti di soggetti che violano essi stessi tali norme. I principi di distinzione, proporzionalità e necessità militare, codificati nei Protocolli aggiuntivi alle Convenzioni di Ginevra del 1977, impongono che le parti in conflitto distinguano sempre tra obiettivi militari e civili, e che evitino “perdite inutili e sofferenze eccessive”.

La rappresaglia israeliana si è tradotta in una campagna militare che ha causato, secondo fonti internazionali, ben oltre 50.000 vittime palestinesi, di cui una larga percentuale composta da bambini. Interi quartieri di Gaza sono stati rasi al suolo, infrastrutture civili distrutte, e l’accesso a beni essenziali come acqua, energia e cure mediche è stato compromesso. Questi effetti, aggravati dal blocco prolungato e dalle limitazioni all’ingresso degli aiuti umanitari, pongono interrogativi seri sulla compatibilità dell’intervento militare con il principio di proporzionalità. Il pur sacrosanto intento di neutralizzare Hamas non giustifica la devastazione di un’intera area abitata da due milioni di persone.

Diritto a parte, a colpire, sotto il profilo etico e simbolico, è il fatto che uno Stato nato dall’esigenza di proteggere un popolo perseguitato dal genocidio — la Shoah — si renda oggi protagonista di un’azione bellica che minaccia la sopravvivenza fisica e morale di un altro popolo. La distruzione sistematica di Gaza sembra tradire le radici stesse dell’identità israeliana, costruita sulla memoria dell’ingiustizia subita. È uno stridente paradosso storico: una democrazia che, nel difendersi, viola apertamente norme fondamentali del diritto internazionale, delegittimando di fatto la propria posizione sul piano globale.

La democrazia, infatti, non è uno scudo giuridico per l’impunità. Al contrario, è proprio nei contesti democratici che il rispetto del diritto umanitario dovrebbe essere massimo, poiché esso incarna i principi stessi di legalità e di tutela della dignità umana. Un uso eccessivo e indiscriminato della forza, come quello documentato a Gaza, rischia di configurare veri e propri crimini di guerra ai sensi dello Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale.

Per quanto riguarda l’Occidente, o quel che ne rimane come blocco valoriale e politico, è bene evidenziare che mantiene un atteggiamentoquanto meno incoerente. Se in Ucraina la difesa della sovranità e la resistenza all’aggressione continuano ad essere valori da difendere a ogni costo, in Palestina la reazione sproporzionata sembra essere tollerata in nome di una presunta necessità militare. 

Ma quali saranno le conseguenze? Ogni bambino traumatizzato, ogni famiglia distrutta a Gaza, rischia di diventare il terreno fertile per la radicalizzazione futura. Se non si interrompe questa spirale, i superstiti di oggi saranno, inevitabilmente, i combattenti di domani.

La proporzionalità non è una questione aritmetica, ma un dovere giuridico e morale. Di fronte a 1.400 morti israeliani non si può giustificare una distruzione che ne ha provocati decine di migliaia tra i palestinesi. Non esiste autodifesa che legittimi l’annientamento di un intero territorio e della sua popolazione civile. Chi è stato vittima dell’orrore dovrebbe essere il primo a riconoscere l’umanità dell’altro.