Siamo sinceri: senza un’Europa forte e federale, chi avrebbe fatto meglio di Ursula?

Tre giorni fa, a Glasgow, Donald Trump e Ursula von der Leyen hanno firmato un accordo che sancisce ufficialmente l’introduzione di dazi del 15% su una larga parte delle merci europee destinate agli Stati Uniti. Per l’Europa, è una pillola amarissima. Ma è anche, con ogni probabilità, il migliore esito possibile, data la posizione negoziale in cui si trova oggi l’Unione. L’accordo è stato immediatamente bollato come un cedimento, una capitolazione, e da quel momento è partita – con l’inevitabilità di un automatismo – una nuova ondata di denigrazione sistematica dell’Europa comunitaria, un coro di accuse e sarcasmo che sembra trovare alimento proprio nel gusto di disprezzare ciò che non si è mai davvero provato a costruire.
Questa reazione, un misto di disfattismo e di cinico compiacimento, ha un nome che cambia a seconda dei tempi e delle mode, ma oggi si potrebbe chiamare “sovranismo opportunista”. È la tentazione ricorrente, molto presente in Italia e non solo, di prendersela con Bruxelles per coprire carenze strutturali, o peggio, per cavalcare il malcontento popolare in nome di un orgoglio nazionale che non produce mai soluzioni. Eppure, dietro la propaganda, c’è una realtà che merita di essere guardata in faccia.
L’accordo non è una vittoria, ma è il miglior compromesso possibile, come spiega l’economista Carlo Alberto Carnevale Maffè, docente della Bocconi. È un’intesa simile, per forma e sostanza, a quelle che gli Stati Uniti hanno già firmato o stanno negoziando con alleati strategici come Giappone, Corea del Sud e Taiwan. In alcuni passaggi – per esempio nella gestione transitoria di alcuni dazi settoriali – è persino più favorevole.
Secondo i dati elaborati da Macrobond e PSC Economics e rilanciati da Carnevale Maffè, solo il 17,7% dell’onere dei dazi sarà effettivamente assorbito dagli esportatori europei. La parte restante, oltre l’80%, verrà sostenuta da importatori e consumatori americani.

Per l’Italia, che nel 2025 prevede circa 75 miliardi di dollari in esportazioni verso gli USA, l’impatto sarà quantificabile in circa 1,7 miliardi di euro di compressione dei margini, con effetti più contenuti nei settori meno esposti e non immediatamente sostituibili, come l’alta gamma del manifatturiero. Nel comparto dell’acciaio e dell’alluminio, dove l’export italiano vale circa 750 milioni di dollari annui, la perdita prevista è contenuta a 66 milioni: un danno localizzato, non sistemico.
Ma ciò che preoccupa davvero – e che Carnevale Maffè ha ben colto – non è il danno diretto, bensì quello sistemico. La violazione di regole internazionali, l’erosione dell’affidabilità del WTO, la messa in discussione unilaterale di intese multilaterali, tutto questo genera instabilità, sfiducia, rallentamento degli investimenti e incertezza cronica, soprattutto per un continente – il nostro – che basa la propria prosperità sul commercio globale e sullo Stato di diritto.
E allora torniamo alla domanda di fondo, quella che molti faticano a porsi con sincerità: chi, oggi, avrebbe fatto meglio di Ursula von der Leyen? Chi avrebbe potuto ottenere di più, con quali leve, con quale potere reale? La risposta, per chi conosce il funzionamento concreto delle relazioni internazionali, è dolorosa ma chiara: nessuno.
Perché l’Europa, oggi, è una potenza potenziale. Non ha un esercito comune, né una forza nucleare condivisa. Non ha un mercato finanziario davvero integrato, né un “safe asset” credibile che possa rivaleggiare con i Treasury americani. Non ha una fiscalità unificata, non ha una politica estera coerente. Ha un mercato unico parziale, un’unione monetaria priva di pilastri politici, una difesa che dipende ancora in larga misura dall’ombrello USA. È difficile pensare di ottenere trattamenti alla pari, se ti presenti al tavolo con il profilo dell’inquilino e non del proprietario.
Lo ha scritto con onestà Luigi Marattin, segretario del Partito Liberaldemocratico, in una riflessione circolata nei giorni scorsi: Donald Trump è forse la peggior disgrazia che sia toccata all’Occidente negli ultimi decenni, ma è il presidente degli Stati Uniti, e con lui dovremo fare i conti fino al 2028. Pensare che l’Europa potesse rispondere con una politica del “pugno duro”, da “brigante e mezzo”, è un’illusione romantica. Non abbiamo leve simili a quelle cinesi sulle terre rare. Non abbiamo ancora costruito un’autonomia energetica degna di questo nome – anche per colpa del rifiuto ideologico del nucleare. E, soprattutto, non abbiamo fatto le scelte necessarie per dotarci di veri strumenti negoziali.
Per questo, se l’accordo di Glasgow è un compromesso amaro, è anche l’unico ragionevole nella situazione data. L’alternativa era l’escalation, la guerra commerciale, la rottura di relazioni economiche da cui l’Europa dipende molto più degli Stati Uniti. In questo senso, Ursula von der Leyen ha fatto ciò che poteva, e probabilmente meglio di quanto molti altri avrebbero saputo fare. Ha preso tempo, ha difeso i settori più esposti, ha garantito che almeno il quadro multilaterale non venisse completamente smantellato.
E se vogliamo trarne una lezione, dovremmo partire da qui. Una delle conseguenze paradossali – e forse benefiche – dell’accordo è la rinuncia europea alla web tax. Un’altra umiliazione, diranno in molti. Ma forse, più che una sconfitta, può essere una sveglia: senza giganti digitali europei, senza innovazione tecnologica massiccia, l’Europa non potrà mai sedersi da pari a pari al tavolo del potere globale. Rinunciare alla web tax non è un favore agli USA: è uno specchio delle nostre mancanze, e dovrebbe diventare lo stimolo per costruire davvero un ecosistema digitale europeo, con investimenti pubblici e privati in AI, semiconduttori, cloud, difesa cibernetica, data economy.
Del resto, Mario Draghi da tempo ci esorta a smettere di imporci da soli “autodazi”, cioè vincoli burocratici, regolatori o fiscali che ostacolano la competitività delle imprese europee molto più di quanto non facciano le pressioni esterne. In un contesto internazionale così sfidante, continuare a complicarsi la vita da soli è un lusso che non possiamo più permetterci.
Allo stesso modo, la politica industriale europea non può più ignorare il tema della demografia e dell’immigrazione. Senza giovani, senza lavoratori, senza strategie intelligenti di attrazione dei talenti e integrazione, l’Europa invecchierà e si contrarrà, perdendo peso e voce. Non servono solo dazi e sussidi: servono visione e coraggio. Servono istituzioni capaci di pianificare e finanziare la crescita demografica e la rigenerazione sociale del continente.
Alla fine, tutto si tiene: difesa, economia, innovazione, popolazione, istituzioni. L’Europa potrà tornare a essere una protagonista della storia solo se deciderà, una volta per tutte, di diventare adulta. Di smettere di lamentarsi, di smettere di dividere le colpe, e di costruire finalmente gli strumenti del proprio potere. Il tempo per farlo è adesso. Perché nel 2035, quando forse rinegozieremo questi termini, potremo presentarci come un’Unione forte e sovrana, oppure come un insieme stanco e litigioso di piccoli Paesi in declino.
Von der Leyen ha fatto quello che poteva, con i poteri che ha e la scarsa legittimità istituzionale che oggi concediamo alla presidenza della Commissione UE. Il resto tocca – da oggi – a noi, all’Europa che vorremmo costruire o non costruire.