Sorella d’Europa? Il paradosso meloniano

Riccardo Lo Monaco
17/02/2025
Poteri

È ormai un dato di fatto che il nuovo Trump sia sempre più simile al vecchissimo Trump, l’immobiliarista spregiudicato che, con fare aggressivo e fagocitante, acquisiva ieri quartieri di New York incrementando la sua fortuna. Un Trump molto diverso da quello del primo mandato, forte di una rielezione avvenuta dopo i fatti di Capitol Hill, conquistando anche il voto popolare che lo ha reso, nella sua convinzione, invincibile. E proprio con la spregiudicatezza del primissimo Donald, si è ripresentato sulla scena mondiale, annunciando candidamente di voler acquisire territori e materie prime in spregio a qualunque norma di diritto internazionale e al principio di pacifica convivenza.

Dopotutto, tutto torna nel trump-pensiero: perché tenere gli USA ancorati a principi, valori e consuetudini che li hanno resi capofila dell’Occidente libero, quando poi i suoi maggiori competitor agiscono indisturbati, liberi dai pesi e contrappesi che caratterizzano le democrazie liberali, ancor più quando quei valori non li senti tuoi?

Per Trump esiste solo un binomio: quello esclusivamente economico di costi e benefici, in cui i primi devono essere ridotti al minimo per poter massimizzare i secondi. Ecco che riabilitare Putin, invitarlo a Washington e fargli vincere di fatto la guerra, se da un punto di vista politico, etico e di rispondenza ai valori liberali rappresenta un costo altissimo, la negazione stessa di quei principi, dal punto di vista economico trumpiano che non vede quei principi monetizzabili, risulta un costo irrisorio rispetto agli enormi vantaggi di una pace imposta all’Ucraina – alle sole condizioni putiniane – spogliandola delle sue materie prime. Così vale per Gaza, dove la deportazione annunciata di un intero popolo e l’invasione di un territorio, ben valgono una colonia mediterranea statunitense in cui costruire decine di Mar-a-Lago.

La nuova Yalta: Trump gioca a Risiko con il mappamondo

Questo è Trump: l’esaltazione del cinismo pragmatico, un principe machiavelliano in versione Super Saiyan per cui ogni mezzo giustifica qualunque fine. Per lui, Putin potrebbe prendersi tutta l’Ucraina e pure un pezzo di Unione Europea mentre lui occupa la Groenlandia e conquista il Canada, magari concedendosi un momento di distrazione giusto per permettere a Xi di invadere Taiwan, mentre i Marines prendono il controllo di Panama. Nella sua testa c’è una nuova Yalta in cui lui, Putin e forse Xi si siedono al tavolo per spartirsi il mondo iniziando dall’Europa, ridotta ai minimi termini e disgregata al suo interno grazie all’azione metastatica di schizofrenici e probabilmente ben sovvenzionati sovranisti europei, più votati al vassallaggio che al patriottismo.

E sbaglia chi annovera tra queste macchiette sovraniste Giorgia Meloni. Non perché la Premier non abbia un orgogliosamente ostentato curriculum patriottico-sovranista, anzi proprio per quello, perché la sua è la storia personale e di una comunità politica cresciuta restando fedele ai principi e ai valori che l’hanno ispirata, restando ai margini e avendo la capacità di uscire da comode logiche che avrebbero dato a lei e al suo gruppo ogni possibilità di veloce carriera politica con quindici anni di anticipo.

Il paradosso: Giorgia Meloni come antidoto al trumpismo

Non si tratta di condividere o meno principi e valori che ispirano la quotidiana e ordinaria attività del governo guidato da Giorgia Meloni, ma occorre prendere atto che oggi Giorgia Meloni è uno dei pochi, se non l’unico, leader europeo che, da destra, può arginare la trumpizzazione dell’Europa.

La destra di Giorgia Meloni non è una destra incline al fascino dell’imperialismo, ma una destra comunitaria che mal sopporta l’idea di fare dell’Italia e dell’Europa colonie cinesi, russe o americane; è una destra che festeggia la caduta del Muro di Berlino come momento cruciale per l’unione dei popoli europei; una comunità che si ispira a Jan Palach e che sapeva cosa fosse il Bloody Sunday ben prima che Bono e gli U2 ne facessero una hit; una destra che annovera tra le sua fila anche tanti sostenitori della causa del popolo palestinese e, per questo, non assume connotazioni antisemite. Insomma, una destra che ha ben saldo nel DNA un proprio codice valoriale difficilmente sacrificabile sull’altare della convenienza politica e personale.



Nel panorama della destra europea non tradizionalmente liberale, Giorgia Meloni è l’unico leader credibile, l’unico che abbia assunto e mantenuto una linea atlantista (anche se ormai occorrerà rivedere il concetto di atlantismo) e saldamente europeista, pur con un’idea di Europa differente dall’attuale, ma comunque di un’Europa protagonista e non disgregata, lontana anni luce dall’idea dei “patrioti” riuniti a Madrid che, al contrario del propagandato Make Europe Great Again, lavorano come utili idioti per un’Europa ridotta a staterelli nazione, colonie sotto l’influenza della superpotenza di turno.

Ecco perché oggi Giorgia Meloni si trova a essere, paradossalmente, sia il leader di destra europea più vicino a Trump (e Musk), ma anche, in potenza, il maggior antidoto al trumpismo che rischia di contaminare irreversibilmente il vecchio continente. Ecco perché oggi è fondamentale che sulla sua linea di politica estera, la linea di una democrazia liberale, in questo molto finiana, riceva il supporto e il soccorso dall’opposizione quando si tratti di disinnescare i tentativi di sabotaggio interni alla maggioranza, esattamente come fece lei con Mario Draghi, aiutandolo a fronteggiare i continui tentativi di sabotaggio messi in opera sempre dallo stesso agente interno – lo stesso, unico tra tutti, a tacere dinnanzi all’ignobile attacco della Russia nei confronti del Presidente Mattarella.

Il resto è politica domestica quotidiana, confronto e scontro su ricette economiche e visioni di società distinte e distanti sulle quali gli elettori dovranno scegliere, ben sapendo però che sulla collocazione europea e internazionale del Paese, al netto del solito collaborazionista, la posizione è e resterà salda.