Non si parla più di Imamoglu. Come e perché Erdogan ci ha ingannato

Erdogan
Filippo Rigonat
29/05/2025
Poteri

Settantuno giorni. Tanto poco è passato dal pretestuoso arresto di Ekrem Imamoglu, sindaco di Istanbul e volto simbolo dell’opposizione a Erdogan. Tanto è bastato affinché questo evento scivolasse nel dimenticatoio.

Era solo il 19 marzo di quest’anno. Il mondo occidentale emotivamente si indignava e la Gen Z turca sognava la rivoluzione. Dissolto il clamore immediato, oggi tutto tace attorno alla Turchia. In ossequio ai machiavellici ingegni del suo ra’is.

L’ennesimo (triste) capolavoro politico-comunicativo di Erdogan

Quando il primo cittadino e la giunta della città più popolosa di Turchia sono stati rinchiusi nel carcere di Silviri, le piazze di Istanbul e di tutto il paese si sono velocemente riempite di migliaia di manifestanti.

Il presidente-Sultano non ha avuto tentennamenti, pugno duro su tutta la linea e susseguirsi inarrestabile di arresti e repressione implacabile contro tutti gli oppositori. Puntuale è stata la pronta condanna dell’opinione pubblica internazionale, con appelli e manifestazioni di solidarietà da tutto il mondo.

La poderosa ondata popolare di proteste e l’iniziale irrigidimento di alcuni partner diplomatici avevano portato alcuni analisti, come Isel Hintz della John Hopkins University, a leggere la mossa autoritaria come un segnale di debolezza della presidenza Erdogan.

Senza considerare che l’escalation politico-giudiziaria è stata tutto tranne che improvvisata.

La tempistica scelta da Erdogan per accelerare il passaggio della forma di governo turca da autoritarismo competitivo a autocrazia di fatto non è stata per nulla casuale.

È stato il contesto internazionale, unito alle attuali congiunture commerciali, militari e diplomatiche -in cui la Turchia gioca un ruolo trasversale e strategico- a offrire al Sultano l’occasione perfetta per compiere la sua mossa con audacia e calcolo.

Con un occhio molto attento alla situazione interna, e alle conseguenti evoluzioni (per qualcuno sorprendenti) dei rapporti con le minoranze curde.

La resa del PKK e la strada verso le presidenziali-farsa 2028

Dopo quarant’anni di conflitto armato con lo stato turco, il 12° e ultimo congresso del PKK (Partito dei lavoratori kurdi) il 9 maggio ne ha dichiarato il definitivo scioglimento. La cesura epocale fa seguito alle dichiarazioni dello storico leader, da 26 anni incarcerato, Abdullah Öcalan .

Come leggere questa storica evoluzione?

Da un lato è direttamente conseguente alla recente neutralizzazione militare della formazione separatista, conciliata soprattutto -ne parleremo in seguito- dal regime change in Siria.

Dall’altro si contempera il disegno di progressivo assoggettamento della minoranza curda all’interno del campo governativo, finalizzato al fatidico ottenimento del quorum parlamentare per la revisione costituzionale che darà a Erdogan la possibilità di correre per un terzo mandato nel 2028.



La normalizzazione dei rapporti con l’ex nemico storico ha avuto la naturale conseguenza di rompere il pericoloso legame che progressivamente si stava saldando tra l’opposizione governativa e la minoranza curda. Divide et impera è una massima che non passa mai di moda, e la freddezza con cui il Pkk e il partito curdo Dem hanno accolto l’ondata di arresti tra i sostenitori di Imamoglu ne è la riprova.

La partita siriana decisiva per la leadership regionale

La rinvigorita forza contrattuale sul piano internazionale del regime di Erdogan ha molteplici cause, prima fra tutte la “vittoria” conseguita dai ribelli siriani del movimento HTS a spese di Bashar al-Assad, nel dicembre 2024.

Il coup, militarmente e finanziariamente sostenuto da quello che, ricordiamo, essere il secondo esercito più numeroso della NATO, ha portato il fu jihadista Al Jolani a divenire, nella veste “civile” di Ahmad Ḥusayn al-Sharaa, nuovo presidente ad interim della Siria.

L’estensione dell’influenza turca nella regione ha scosso i fragili equilibri mediorientali, portando al definitivo ridimensionamento militare delle milizie del PYD curdo nella zona del Rojava- che ha costretto il PKK turco alle trattative-  e al forte ridimensionamento in primis dell’ “Asse del Male” costruito dalla Repubblica Islamica dell’Iran.

Oggi Erdogan guida il processo di normalizzazione del nuovo corso siriano di fronte alle cancellerie globali, rafforzato dall’intenzione dell’amministrazione Trump e della Commissione Europea di “rimuovere tutte le sanzioni contro la Siria”.

Il dealer maker divenuto indispensabile

L’abilità da scacchista del leader istanbuliota non si scopre certamente in questo contesto.

Allo stesso tempo incarnazione della storica volontà di potenza turca di matrice neo-ottomana e interprete della più efficace realpolitik moderna su più fronti, il segreto della perenne centralità turca è l’indispensabilità diplomatica, conseguita grazie a scaltrezza e duttilità politica.

A testimonianza di ciò, la ripresa ad alto livello delle interlocuzioni dei funzionari anatolici con russi e ucraini.

Non a caso, nel corso della recente visita a Mosca del ministro degli esteri turco Hakan Fidan, l’omologo Sergej Lavrov ha aperto allo svolgimento di un secondo round di negoziati russo-ucraini proprio a Istanbul, successivamente al fallimento dell’aprile 2022.

Saper parlare con tutti senza dipendere da nessuno, inserendosi acutamente in ogni spiraglio commerciale, politico, militare e negoziale.

Queste caratteristiche rendono la leadership di Erdogan apprezzata parimenti da USA, Russia, Cina, Diyanet islamico e, impotentemente, Unione Europea. Caso più unico che raro nell’attuale scacchiere internazionale.



Il realismo politico occidentale che condanna Imamoglu all’oblio

Ad essere vittima centrale di questo grande intrigo internazionale è proprio Ekrem Imamoglu, e insieme a lui tutti i sostenitori di una Turchia democratica.

I governi occidentali, con annessi mezzi di informazione conniventi, stanno sacrificando la causa del sindaco di Istanbul sull’altare della convenienza politica.

L’oblio sulla repressione in Turchia, che non accenna a fermarsi con 45 arresti nell’ultima settimana e il divieto di esibizione pubblica finanche dell’immagine di Imamoglu, è il compimento vittorioso del calcolo del rais. Con il tempismo di un segugio, Erdogan ha approfittato della strettissima finestra di permissività internazionale per spegnere le crescenti tensioni interne minimizzando le ricadute reputazionali e diplomatiche.

E oggi, con Imamoglu e almeno altri 5000 turchi detenuti negli ultimi mesi per motivazioni politiche, il Sultano si avvia al consolidamento della leadership perenne. Intanto noi osserviamo in silenzio.

Dimenticandoci di Ekrem Imamoglu.