Addio a Golos, l’ultima finestra sul voto russo. Anche le urne vanno sotto chiave

In Russia, quando uno spazio si chiude, non viene mai murato in silenzio. Si fa rumore, si umilia, si processa. Serve a far capire che nessuno è al sicuro. È accaduto anche stavolta.
Il 9 luglio 2025 il tribunale civile di Mosca ha decretato la liquidazione forzata di Golos, l’ultima organizzazione indipendente che si occupava di monitoraggio elettorale. Non una ONG qualsiasi, ma l’ultima voce civile rimasta a garantire un minimo di trasparenza nei processi elettorali russi, da Kaliningrad a Vladivostok.
Colpita dal marchio di “agente straniero” fin dal 2013, sopravvissuta alle strette del 2016, alle epurazioni del 2021 e alla piena militarizzazione della politica dopo il 24 febbraio 2022, Golos aveva continuato a documentare, denunciare, informare. Con strumenti minimi, sotto sorveglianza costante, usando volontari e strumenti digitali, spesso improvvisati. Una resistenza civile nel cuore di un regime che ha fatto del controllo dell’informazione l’architrave della propria sopravvivenza.
Il suo co-presidente, Grigory Melkonyants, è agli arresti preventivi dal 17 agosto 2023. È accusato — si fa per dire — di “collaborare con un’organizzazione indesiderabile”, nello specifico la European Network of Election Monitoring Organizations. Nella Russia putiniana, collaborare con reti internazionali sulla trasparenza del voto non è più garanzia di affidabilità, ma prova indiziaria di eversione.
Una farsa da 87%
La tempistica non è casuale. A marzo 2024, la Federazione Russa ha celebrato le sue “elezioni presidenziali”. Vladimir Putin ha ottenuto, ufficialmente, l’87,28% dei consensi — il suo miglior risultato da sempre, in un crescendo che da anni misura non tanto la popolarità, quanto la necessità del potere di auto-confermare il proprio dominio in modo sempre più grottesco. Secondo la Commissione elettorale centrale, la partecipazione è stata del 77,4%, con picchi “miracolosi” nelle regioni occupate dell’Ucraina, dove le urne sono arrivate coi blindati e le schede col kalashnikov.
Chi si ostina a cercare la politica dietro ai numeri non ha capito che le elezioni russe non sono più una competizione, ma un rituale liturgico. Il sistema delle “candidature filtro” garantisce la presenza di falsi antagonisti, selezionati per non disturbare il manovratore e conferire alla farsa una patetica parvenza di legittimità.
Nel 2024, l’unico outsider autentico, Boris Nadezhdin, è stato escluso nonostante avesse raccolto oltre 200.000 firme — il doppio di quelle richieste — per presunti errori formali. Tra i “problemi”: firme di cittadini defunti o duplicate, accuse mai dimostrate, il tutto gestito da commissioni elettorali che rispondono direttamente al Cremlino.
Anche il meccanismo del voto elettronico — ormai largamente impiegato in diverse regioni — è opaco e incontrollabile: secondo Golos, nelle zone dove il voto digitale è predominante, il margine di vittoria di Putin è stato sistematicamente superiore al 90%. Le stesse autorità elettorali hanno ammesso che il sistema non consente verifiche indipendenti. Una scatola nera senza nessuna chiave.
La pedagogia del terrore
L’eliminazione sistematica di ogni forma di opposizione politica ha assunto negli ultimi anni una dimensione spettacolare.
Alexei Navalny, il più noto oppositore del regime, è morto il 16 febbraio 2024 in una colonia penale nell’estremo nord, in circostanze mai chiarite. Aveva subito un tentativo di avvelenamento, era stato trasferito più volte in carceri dure, privato dei medicinali, isolato, punito con celle di rigore per motivi ridicoli (una cucitura aperta della divisa, una parola detta a voce alta, un saluto non concesso). La sua morte è stata un messaggio chiaro: chi osa, paga. E chi guarda, taccia.
Lo stesso trattamento è riservato a chiunque tenti di organizzare, parlare, documentare. Vladimir Kara-Murza, giornalista e attivista, è stato condannato a 25 anni di carcere per “alto tradimento”, in quanto critico del conflitto in Ucraina. I pochi media indipendenti rimasti sono stati chiusi, esiliati o bollati come “agenti stranieri”. I cittadini che manifestano, anche solo esibendo un cartello bianco, vengono arrestati in pochi minuti. Il codice penale è stato riscritto in funzione della guerra: ogni parola può diventare reato.
Golos, in questo scenario, rappresentava l’ultimo strumento civile di verifica dei fatti, l’unica possibilità di contare i voti fuori dai confini della propaganda. Non che potesse cambiare i risultati — non ne aveva più la forza — ma teneva accesa una luce in una stanza sempre più buia, raccogliendo testimonianze, smascherando gli abusi, documentando le distorsioni sistemiche del processo elettorale.
Chi ha paura della verità
Chiudere Golos, oggi, significa mettere il sigillo finale sull’illusione che in Russia possano ancora esistere spazi di legalità politica. Non è solo una repressione giudiziaria, è una vendetta simbolica contro chi per anni ha raccontato la realtà, anche quando tutto spingeva all’adattamento, al cinismo, alla fuga.
Per il Cremlino, la verità è un rischio. La disinformazione, invece, è strategia. Come dimostrano le campagne coordinate per costruire una narrazione in cui la Russia appare come baluardo contro il “decadente Occidente”, in cui la NATO è l’aggressore e l’Ucraina un territorio da denazificare. Una costruzione propagandistica talmente pervasiva da contagiare anche parte dell’opinione pubblica europea, disposta a credere che non esistano aggrediti e aggressori, ma solo “complessità geopolitiche”.
Ecco perché Golos doveva sparire. Perché in un sistema dove nulla è libero, neppure la finzione può più tollerare la presenza della realtà.
L’ultima chiave è stata girata
Con la chiusura di Golos, la Russia perde il suo ultimo specchio.
Nessuno conterà più i voti. Nessuno documenterà più i brogli. Nessuno potrà più testimoniare che, sotto la superficie liscia del potere, si agitano paure, fragilità e menzogne.
Da oggi in poi, le elezioni russe saranno una recita senza pubblico, trasmessa da emittenti di Stato, applaudita da funzionari, validata da commissari, osservata solo dai satelliti.
Per chi guarda da fuori, l’obbligo è non voltarsi. Non cedere alla retorica dell’“è sempre stato così”. Non scambiare la stabilità per pace, l’ordine per giustizia, il silenzio per consenso.
Perché ciò che si lascia accadere una volta, può accadere ovunque. Anche qui.