Von der Leyen salva la poltrona, ma l’Europa perde un’occasione di chiarezza

La mozione di sfiducia contro la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen è stata respinta con 360 voti contrari, 175 a favore e 18 astensioni. Un risultato prevedibile, ma tutt’altro che banale. Non solo per il significato politico che assume a pochi giorni dalla nomina dei vertici europei, ma soprattutto per le posizioni – o meglio, le ambiguità – assunte dai principali partiti italiani.
Tra i voti mancanti figurano infatti quelli della delegazione di Fratelli d’Italia, che ha scelto l’astensione tramite assenza: un modo poco coraggioso di sfilarsi da un passaggio chiave per la democrazia parlamentare europea.
Ma non meno ambigua è apparsa la posizione del Partito Democratico, che – pur avendo espresso sostegno a von der Leyen per il secondo mandato – si trova ora in contraddizione con molte delle sue stesse critiche al metodo con cui la leader tedesca ha cercato una maggioranza, in particolare con l’apertura al sostegno dei conservatori e di parte dell’estrema destra.
La mozione e il suo contesto: un voto politico, non solo simbolico
L’iniziativa, presentata dai gruppi sovranisti di estrema destra (tra cui Identità e Democrazia e parte dei Conservatori e Riformisti, gruppo di Fratelli d’Italia), era nata come atto di opposizione al percorso che ha portato alla riconferma politica di von der Leyen da parte del Consiglio Europeo. In particolare, i promotori accusano la presidente della Commissione di aver tradito il proprio mandato originario, avendo cercato l’appoggio dei socialisti e dei liberali, e di voler continuare una politica “federalista” e ambientalista, in contrasto con le loro posizioni nazionaliste.
Tuttavia, se la mozione di sfiducia non aveva realistiche possibilità di passare, rappresentava pur sempre un banco di prova politico. Votare significava assumersi la responsabilità di una linea coerente con la propria visione dell’Europa.
In questo quadro, l’astensione tattica di FdI appare come un’operazione di equilibrismo: non sostenere formalmente von der Leyen, ma nemmeno esporsi con un voto contrario, per non compromettere i negoziati in corso sul futuro assetto della Commissione e un possibile dialogo futuro con il PPE.
Fratelli d’Italia: l’opposizione che non osa
È qui che emerge tutta l’incoerenza di Giorgia Meloni e del suo partito. Fratelli d’Italia si è candidata in Europa come forza identitaria, “alternativa ai socialisti e ai liberali”, contraria al Green Deal, e ostile a ogni ipotesi di integrazione rafforzata dell’Unione. Eppure, nel momento in cui la sua delegazione avrebbe potuto sancire con un voto la propria distanza dal “sistema von der Leyen”, ha scelto di non partecipare.
Una non-scelta, che rivela il dilemma di chi aspira a contare in Europa ma non ha ancora deciso se giocare dentro le regole comunitarie o continuare a cavalcare un nazionalismo retorico. In altri termini, Fratelli d’Italia ha preferito il silenzio all’assunzione di responsabilità. Un silenzio che suona come un’ammissione di debolezza.
Il Pd e la retorica europeista a corrente alternata
Diverso, ma non meno problematico, è il caso del Partito Democratico.
I “dem” hanno votato contro la sfiducia, sostenendo la presidente della Commissione, in coerenza con quanto espresso nel Consiglio Europeo dai capi di Stato e di governo del PSE. Ma il sostegno a Von der Leyen appare oggi, agli occhi di molti elettori progressisti, come una ratifica passiva di un processo poco trasparente.
Il Pd, infatti, ha più volte denunciato – a parole – il metodo intergovernativo che ha di fatto marginalizzato il Parlamento nella nomina dei vertici Ue.
Eppure ha avallato l’accordo che ha confermato von der Leyen e imposto Antonio Costa (PSE) al Consiglio europeo, rinunciando a ogni vera battaglia sui contenuti programmatici.
Inoltre, ha evitato ogni confronto critico sul fatto che la presidente della Commissione potrebbe contare anche sull’appoggio (più o meno silenzioso) di una parte dei conservatori, e quindi potenzialmente degli stessi Fratelli d’Italia.
Quella del Pd è quindi una coerenza solo apparente, che cerca di difendere l’europeismo formale senza porsi davvero il problema della qualità democratica dei processi decisionali europei. Un europeismo che si ferma alla superficie, evitando i nodi reali: la mancanza di trasparenza, l’assenza di un vero dibattito sulle alleanze politiche, il rischio di uno slittamento verso un compromesso centrista che svuota di senso i programmi elettorali.
Un’Europa sempre più distante dai cittadini
Il rischio più grande, in questa fase, non è tanto la riconferma di Ursula von der Leyen – che resta una figura solida e moderata, con un chiaro profilo atlantico e pro-europeo – ma il modo in cui questa riconferma avviene: con accordi di vertice, negoziati poco leggibili, e una crescente distanza tra istituzioni e cittadini.
L’assenza di coraggio politico dei partiti italiani – da Fratelli d’Italia, che non osa prendere posizione, al Pd, che accetta tutto in nome della stabilità – contribuisce a questa disaffezione. L’Europa dei compromessi è necessaria, ma deve restare leggibile e legittimata.
Quando i compromessi si trasformano in ambiguità, e le alleanze si definiscono fuori da ogni dibattito, cresce il senso di estraneità nei confronti delle istituzioni europee.
Conclusione: serve più politica, non meno
Il voto sulla mozione di sfiducia non ha cambiato gli equilibri, ma ha rivelato le fragilità della politica europea. Ha mostrato come il Parlamento europeo, pur avendo un ruolo centrale, fatichi a esercitare pienamente la propria funzione democratica. E ha svelato la difficoltà dei partiti italiani nel confrontarsi con questa complessità, preferendo spesso l’ambiguità tattica alla chiarezza programmatica.
Chi si proclama europeista – come il Pd – dovrebbe battersi per un’Unione europea più trasparente, politica e partecipata. Chi si dice sovranista – come Fratelli d’Italia – dovrebbe avere il coraggio di spiegare ai cittadini perché continua a voler contare in Europa mentre disprezza le sue istituzioni.
In un momento storico segnato da tensioni internazionali, crisi ambientali e sfide economiche epocali, l’Europa ha bisogno di leader che sappiano decidere e assumersi responsabilità, non di strateghi del silenzio o di complici del conformismo.