Armageddon Trump-Musk. Quando il potere distrugge il potere

Donatello D'Andrea
06/06/2025
Poteri

Nel corso degli ultimi anni, Elon Musk ha gradualmente superato i confini dell’industria per assumere un ruolo sempre più centrale nella politica americana. Dalle visite alla Casa Bianca alle esternazioni su X (ex Twitter), passando per la direzione del Dipartimento per l’Efficienza del Governo (DOGE), la traiettoria pubblica dell’imprenditore ha oscillato tra la costruzione di una propria sfera d’influenza politica e il tentativo, più o meno riuscito, di orientare l’agenda di Donald Trump e del Partito Repubblicano.

Quella che era iniziata come un’alleanza tattica tra un miliardario in cerca di potere e un partito in cerca di innovazione si è trasformata in un esperimento pericoloso di co-presidenza de facto. Un’unione fatta di eccessi, tensioni, narcisismi contrapposti. Ma come spesso accade nei matrimoni d’interesse, la convivenza si è dimostrata più fragile del previsto. E oggi, con l’annuncio dell’uscita di scena di Musk e l’esplosione della frattura personale e politica con Trump, possiamo iniziare a leggere in controluce i segnali di una crisi di sistema tra imprenditoria e governocomunicazione e politica.

L’uscita di Musk non è solo il passo indietro di un uomo d’affari sovraesposto. È il tramonto di un modello ibrido in cui il potere economico pretendeva di dettare i tempi della politica. Ma soprattutto è il riflesso di un errore di calcolo comunicativo: credere che la popolarità digitale e il genio imprenditoriale fossero strumenti sufficienti per costruire leadership istituzionale. La rottura con Trump ne è la prova definitiva.



La campagna elettorale, il DOGE e l’equilibrio impossibile

Nei primi mesi del 2025, Elon Musk era ovunque. Riunioni strategiche alla Casa Bianca, incontri con il Tesoro, telefonate quotidiane con Trump, dichiarazioni a reti unificate. I media lo definivano il vero “co-presidente” degli Stati Uniti, capace di influenzare decisioni, nominativi e addirittura indirizzi normativi.

La sua presenza era stata formalizzata nel ruolo di impiegato speciale del governo, a capo del DOGE, senza obblighi di trasparenza patrimoniale o di disinvestimento dalle sue aziende. In pratica, Musk aveva ottenuto uno statuto extra-istituzionale: consigliere e attore, interno ma anche esterno all’amministrazione.

Il suo apporto alla campagna elettorale di Trump era stato notevole: circa 290 milioni di dollari investiti in iniziative politiche, promozione del voto repubblicano attraverso X, eventi pubblici, apparizioni a fianco di candidati locali. Aveva amplificato il messaggio trumpiano in ambienti tecnici e digitali, contribuendo a rilanciare il frame di un “nuovo Rinascimento americano” guidato dalla tecnologia.

L’apporto alla macchina trumpiana non è stato soltanto economico ma soprattutto mediatico simbolico. Nel momento in cui la candidatura di Trump sembrava subire una parabola discendente, Musk ha riscritto le regole della legittimazione attraverso la costruzione di una nuova narrazione: quella della disruption tecnopolitica.

Il fulcro di questa strategia è stata la piattaforma X, ex Twitter, acquisita da Musk e riconfigurata come dispositivo politico. In un ecosistema informativo disintermediato, Musk ha operato come megafonofiltro e regista, amplificando le posizioni più radicali del fronte conservatore e mettendo in crisi il controllo discorsivo del Partito Democratico. I suoi post non erano semplici commenti: erano atti performativi, capaci di orientare l’agenda mediatica, influenzare le scelte strategiche della campagna e polarizzare l’elettorato.

Parallelamente, Musk ha partecipato a eventi, tavole rotonde, confronti pubblici e dirette live in cui ha prestato la sua immagine alla causa trumpiana. Ma più ancora, ha costruito un’estetica: quella dell’imprenditore “senza filtri” che dice la verità, al di fuori del politicamente corretto, e che si fa interprete diretto delle paure e delle ambizioni della società americana post-pandemica.

In questo senso, la sua comunicazione ha agito su tre livelli:

  • simbolico: posizionandosi come “uomo del futuro” contro l’establishment;
  • discorsivo: colonizzando i lessici dell’innovazione, dell’efficienza e del merito;
  • algoritmico: sfruttando le dinamiche di visibilità proprie della sua stessa piattaforma per creare un sistema di amplificazione autoreferenziale.

Nel momento in cui Trump sembrava isolato, Musk gli ha fornito una macchina comunicativa parallela. Non una semplice alleanza, ma una infrastruttura semantica.

Ma come spesso accade tra personalità egemoni, la tensione è esplosa non appena gli interessi si sono disallineati. La proposta di legge voluta da Trump — che prevedeva tagli alle tasse per i ricchi e investimenti nel settore militare — è stata definita da Musk un “abominio disgustoso”, segnalando la rottura. Trump ha reagito pubblicamente accusandolo di ingratitudine, aprendo una vera e propria faida. Musk ha rilanciato sui social riesumando vecchi post di Trump contrari all’aumento della spesa pubblica, cercando di farlo apparire incoerente.

Il conflitto ha assunto toni inediti: accuse reciproche, minacce implicite alla rottura dei contratti tra lo Stato e le aziende di Musk (Tesla, Space X), attacchi personali fino a evocare il caso Epstein. L’impatto finanziario è stato immediato: Tesla ha perso fino al 16% in Borsa. Musk ha persino pubblicato un sondaggio su X: “È il momento di un nuovo partito?”.

L’alleanza tecnopolitica è dunque saltata, mostrando i limiti strutturali della disintermediazione: senza filtri, le fratture si amplificano, la gestione del potere diventa fragile e farraginosa. L’algoritmo non costruisce fedeltà, solo visibilità.

Il genio alla deriva

Il ritiro di Elon Musk dalla politica ha motivazioni che vanno ben oltre la delusione personale. Rappresenta una risposta diretta ai danni reputazionali ed economici prodotti dal suo coinvolgimento iperattivo nell’amministrazione statunitense. Il primo a pagarne le conseguenze è stato il suo impero industriale, a partire da Tesla, la cui capitalizzazione di mercato è crollata del 71% nel primo trimestre del 2025, prima di una modesta ripresa frenata dagli sviluppi delle ultime ore.

Ma l’effetto più evidente è stato l’erosione della fiducia. La politicizzazione estrema di Musk, la sua identificazione quasi simbiotica con l’amministrazione Trump e le sue esternazioni incontrollate hanno progressivamente alienato intere fasce di consumatori, in particolare in Europa, dove l’associazione con il trumpismo ha danneggiato irrimediabilmente il posizionamento “green” e innovativo del marchio Tesla. La sua figura è divenuta tossica: un accentratore instabile, incapace di separare i confini tra brand, ideologia e governance.

La crisi con Donald Trump ha cristallizzato questo fallimento. Dopo l’uscita dall’amministrazione, Musk ha criticato aspramente una proposta di legge sostenuta dalla Casa Bianca, definendola “un disgustoso abominio“. Il testo prevedeva tagli fiscali per i redditi alti e un aumento di spesa pubblica in settori strategici, come difesa e controllo delle frontiere. Musk, fedele alla sua narrativa di riduzione della spesa e dello Stato, ha reagito con veemenza. Trump ha risposto durante una conferenza stampa con parole pesanti: “Sono molto deluso da Elon, l’ho aiutato un sacco“.

La rottura si è trasformata rapidamente in una guerra digitale a colpi di post, con Musk che ha rispolverato vecchi tweet dello stesso Trump contro il debito pubblico, e il presidente che ha minacciato pubblicamente di “porre fine ai sussidi e ai contratti governativi con Elon“. La minaccia non era simbolica: nel 2024, alle aziende di Musk erano stati promessi oltre 3 miliardi di dollari in quasi 100 contratti diversi con 17 agenzie federali. Dopo le dichiarazioni, il titolo Tesla ha perso fino al 16% in una sola giornata.

Parallelamente, le sue aziende – SpaceX, Neuralink, X – sono diventate vulnerabili ai cambi normativi e alle ritorsioni politiche. L’ibridazione forzata tra sfera pubblica e privata ha dimostrato la necessità di limiti chiari: quello che Musk ha tentato è stata una fusione tossica, dove ogni decisione pubblica era letta come un’estensione del suo interesse privato. Ma la politica, a differenza del business, ha una memoria lunga e un equilibrio precario.

Le inchieste giornalistiche hanno poi aggravato la situazione. Il New York Times ha pubblicato un’indagine dettagliata sull’uso abituale di sostanze da parte di Musk: ketamina, Adderall, ecstasy, marijuana, funghi allucinogeni. Secondo i report, durante la campagna elettorale Musk avrebbe fatto uso quotidiano di ketamina, con effetti sulla lucidità decisionale. Le conseguenze mediche, tra cui lesioni alla vescica, hanno alimentato ulteriori dubbi sulla sua idoneità a ruoli di governo.

Il problema non è morale. È strategico. Una figura tanto visibile quanto instabile, con conflitti di interesse multipli e una comunicazione impulsiva, non può sopravvivere all’interno delle regole della governance democratica. Il suo passo indietro è stato accolto con sollievo anche da molti repubblicani, stanchi di doversi giustificare per ogni sua uscita.

Il disincanto algoritmico: Musk e il fallimento della politica disintermediata

L’esperienza politica di Elon Musk rappresenta il limite estremo – e fallimentare – del sogno della disintermediazione totale nella governance. Per anni, la narrazione del tech-CEO capace di “ottimizzare lo Stato come un algoritmo” ha alimentato una suggestione potente: la possibilità di sostituire la macchina politica tradizionale con la rapidità e la spietata efficienza della cultura start-up. Ma il sogno è crollato nel momento in cui Musk ha provato a traslare modelli comunicativi algoritmici all’interno di una struttura istituzionale fondata sulla negoziazione, sulla procedura e sulla delega.

La presunzione di poter governare con un thread su X ha mostrato tutta la sua fragilità. Il rifiuto delle intermediazioni, il culto della trasparenza brutale, l’uso compulsivo del sarcasmo e del meme come strumento decisionale hanno alimentato un paradosso: nel tentativo di semplificare la realtà, Musk ha finito per renderla incomprensibile. Gli atti comunicativi non si sono trasformati in governance, ma in rumore. La performance ha divorato la competenza. E l’ipervisibilità non ha prodotto autorevolezza, ma saturazione tossica.

A venire meno non è stata solo una strategia, ma un’intera visione del potere. Quella in cui il leader è influencer, imprenditore, risolutore e oracolo. Il caso Musk mostra i limiti sistemici dell’uomo-piattaforma: capace di orientare l’opinione pubblica, ma incapace di gestire la complessità burocratica. Più i messaggi diventavano virali, più le sue politiche diventavano incoerenti, disfunzionali, o puramente propagandistiche.

Il disincanto ha riguardato anche i suoi seguaci. La platea iperconnessa che prima lo acclamava ha iniziato a leggere l’eccesso comunicativo come instabilità emotiva. L’uomo “senza filtri” è diventato il CEO senza freni, incapace di distinguere la promozione di un modello di business da quella di un’idea di Paese. Anche tra le comunità digitali più affini, come quelle degli sviluppatori, dei crypto-anarchici e degli startupper libertari, è emersa la consapevolezza che la democrazia non può essere ridotta a un poll su X.

Nel tentativo di bypassare il sistema, Musk ha solo confermato la sua centralità. Il sistema politico ha bisogno di mediazioni, pesi e contrappesi, tempi lunghi e linguaggi condivisi. La disintermediazione assoluta diventa caos. Il fallimento non è stato quello di un singolo uomo, ma di un’intera idea: che basti un codice, un algoritmo o un follower count per governare. E che il potere sia una variabile del carisma online.

Ora che l’effetto-meme si è dissolto e la realtà istituzionale è tornata a reclamare la sua complessità, il caso Musk entra nella storia come l’illusione algoritmica del potere: affascinante, brillante, ma strutturalmente instabile. Una distopia brillante che ha fallito davanti alla banale resilienza del protocollo, della procedura, della prassi.



La fine di Musk è il fallimento della politica del CEO al comando

L’uscita di scena di Elon Musk dall’ esecutivo Trump non è solo la fine di un’avventura personale. È il simbolo dell’implosione di un modello di potere ibrido, in cui l’influenza economica pretendeva di sostituirsi alla legittimazione democratica. L’esperimento DOGE, nato come laboratorio per una burocrazia efficiente, si è trasformato in un caso scuola di inefficacia narcisistica: più show che riforma, più marketing che governance. Insomma, la classica parabola del potere che brucia sé stesso.

Il fallimento di Musk è anche un fallimento comunicativo. La sua convinzione che l’algoritmo bastasse a reggere il peso della leadership si è scontrata con i ritmi, le logiche e le complessità della rappresentanza politica. La democrazia performativa ha bisogno di filtri, compromessi, grammatica. Non si può twittare una riforma, né costruire una coalizione con un meme. L’uomo che voleva disintermediare tutto si è trovato disintermediato.

Ma la lezione più dura riguarda l’illusione algoritmica del potere. Musk ha creduto che l’essere eccezionale nel business autorizzasse un’egemonia nel governo. Ha confuso consenso digitale con consenso istituzionale. Ha pensato che la viralità potesse sostituire la pazienza. E ha dimenticato che ogni Stato – per quanto imperfetto – richiede processi, rispetto delle regole, visione collettiva. Nessun CEO può diventare presidente senza pagarne il prezzo, se non capisce che governare è un verbo complesso.

Nel suo ritiro, Musk porta con sé il prezzo di una sovraesposizione comunicativa senza controparte amministrativa. Un’eco amplificata che si è fatta rumore di fondo, fino a divenire insostenibile anche per lui. Il suo ritorno alle aziende è forse una tregua, ma non una redenzione. La sua parabola resterà come un monito per chi crede che la politica possa essere trattata come una start-up.

Perché la democrazia non è una piattaforma. Non si scala. Non si lancia. E soprattutto: non si compra. E il potere, senza misura, si trasforma sempre in caricatura.