Sul convoglio sfiorato dai missili russi. Il racconto di un volontario italiano
Antonio, come ti sei sentito nel momento in cui la stazione di Leopoli è stata bombardata pochi istanti dopo che il vostro treno ci era passato?
In realtà io stavo dormendo, nella cuccetta del treno, e sono stato svegliato da bagliori e rumore di spari ed esplosioni. Nei primi minuti ho avuto molta paura, e devo dire che averla condivisa con gli altri volontari mi ha parecchio aiutato.
Mi sono subito sentito in colpa nei confronti dei miei cari.
Solo dopo un po’ mi sono tranquillizzato, confidando nelle rassicurazioni del personale del treno – una ragazza, anche lei però spaventata, che cercava comunque di tranquillizzarci, insieme a una passeggera ucraina.
Quindi ho pensato al fatto che fossimo a Leopoli, cioè in una zona che sulla carta è molto meno pericolosa rispetto a quella di Kharkiv, dalla quale venivamo e che è a pochi km dal fronte. Mi sono reso conto ancora di più di quanto siano assurdi questi attacchi indiscriminati.
Venivate da Kharkiv, perciò. Come hanno reagito i cittadini di Kharkiv alla vostra presenza?
Inizialmente mi hanno dato l’impressione di guardarci con un misto di curiosità e sospetto. Una volta entrati in contatto e confidenza, erano in realtà felici della nostra presenza, che vedevano come un puro atto di solidarietà umana: sorrisi, condivisione e sguardi di intesa.
Uno di loro, con un passato da pilota, si è esaltato al fatto che venissimo dall’Italia, dicendomi di aver volato tante volte sopra il nostro Paese.
Ci hanno ringraziati, offerto da bere e da mangiare (non volevano assolutamente soldi in cambio, erano ai limiti dell’offesa). Con delle devote signore della città, che stavano fabbricando dei rosari giallo-blu per i soldati al fronte, ci siamo abbracciati a lungo, al grido di “Slava Ukraïni!”
Credo che, oltre a un aiuto fisico e tangibile, abbiamo dato loro l’impressione di non lasciarli soli, che a mio avviso è fondamentale in quel contesto.
Eravate in 110. Facevate tutti la stessa attività o vi suddividevate in più gruppi?
Avevamo dei gruppi tematici: quello degli amministratori e dei sindaci, quello delle federazioni sportive, quello delle università…e ciascuno di questi in Ucraina ha delle sue partnership e dei suoi progetti.
Eravamo insieme, però, quando siamo arrivati al centro di Kharkiv nei pressi della cattedrale, che in parte è stata ricostruita dopo gli attacchi del gennaio 2024, in mezzo a cittadini che avevano perso tutto e che erano in fila per gli aiuti umanitari, smistavano i pacchi alimentari, si regalavano a vicenda i vestiti…
La vostra missione era composta perlopiù da associazioni cattoliche. Vi è capitato di riflettere su come gli ucraini vivono la religiosità in questi anni così duri?
Due cose mi hanno colpito. Anzitutto abbiamo partecipato a varie celebrazioni dove le persone sembravano molto coinvolte emotivamente. Le vedevo e mi davano la sensazione che la fede le aiutasse a coltivare un grande senso di speranza.
C’è poi un aspetto che riguarda il corpo sacerdotale. Dai chierici ucraini sono arrivate parole di una nettezza assoluta: senza girarci troppo intorno e con senso pratico hanno parlato della necessità di ricorrere alle armi per difendersi.
Avevano bene in mente la differenza concettuale che esiste tra nonviolenza e pacifismo. Con altrettanta chiarezza parlavano della differenza tra il bene e il male, senza concedere nulla ad alcun relativismo culturale.
Personalmente, venendo dall’Italia, non sono abituato a vedere uomini di Chiesa che parlano in maniera così chiara, e questo mi ha stupito in positivo.









