Spagna vs. Nato: da Pedro Sanchez demagogia, pacifismo di comodo e free riding

Daniele Venanzi
30/06/2025
Poteri

Nel seminale “La logica dell’azione collettiva”, Mancur Olson, economista e pioniere della teoria delle scelte pubbliche, illustra un concetto così limpido da venire spesso ignorato: ciascun individuo ha interesse a partecipare a un gruppo organizzato solo nella misura in cui la sua partecipazione gli procura un beneficio tangibile; in altri termini, solo se dalla partecipazione a tale gruppo, che implica sempre un certo contributo alla causa comune, le sue condizioni ne risultano migliorate rispetto all’agire individualmente. È un principio che vale anche per i gruppi di organizzazioni o di istituzioni, quali le organizzazioni sovrannazionali, come la NATO.

Spinti dall’innato tentativo di massimizzare la propria utilità e ottimizzare i costi, i membri tenteranno sempre di agire da beneficiari netti, ossia da agenti che beneficiano più di quanto contribuiscano; in altre parole, proveranno sempre a comportarsi da free rider. Un po’ come chi non vidima il biglietto della metro perché sicuro che non incontrerà controllori e che il resto della collettività continuerà a sopportare l’intero costo del servizio, garantendolo anche a chi invece ne approfitta. Il successo di ogni gruppo dipende esattamente da quanto riesca a disincentivare e arginare questo fenomeno, in grado, per citare una massima di Frédéric Bastiat sulla natura dello Stato, di trasformare rapidamente un gruppo in una “grande finzione attraverso la quale tutti cercano di vivere alle spalle di tutti gli altri”. È il sacrosanto principio a cui si appella ogni contributore netto, in qualsiasi circostanza, sia essa la partecipazione al budget dell’Unione Europea o, come menzionato, a quello dell’alleanza atlantica.

Una difesa a spese altrui

A proposito della NATO e del comportamento dei suoi membri, l’opposizione del Governo spagnolo all’aumento della spesa in difesa al 5% del PIL entro il 2035 è emblematica del tentativo di difendere una posizione da beneficiari netti di un bene comune erogato principalmente grazie agli sforzi altrui. I dati sono inequivocabili: la Spagna spende in difesa appena l’1,3% del proprio PIL, ben al di sotto della soglia del 2% concordata dagli alleati nel vertice di Cardiff del 2014, ma sarebbe finanziariamente in grado di sostenere maggiori esborsi per raggiungere i target stabiliti? In questo, il rifiuto dell’esecutivo di Pedro Sanchez appare un misto di facile demagogia socialista, che cavalca i mantra del welfare state e del pacifismo di comodo, e l’effettiva difficoltà a reperire risorse aggiuntive da destinare allo scopo. Il premier spagnolo ha dichiato che, per raggiungere il target del 5% entro il termine del 2035, andrebbero aggiunti 350 miliardi di spesa al bilancio dello Stato: una cifra cospicua, se si considera che, mediamente, una legge finanziaria di Madrid degli ultimi 10 anni ammonta a circa 490 miliardi. Persino più pessimistico il magazine francese Le Grand Continent, che stima invece che alla Spagna, per raggiungere gli obiettivi, servirebbe spendere circa 65,3 miliardi di euro in più ogni anno.

Pedro Sanchez, dunque, non mente né sovrastima lo sforzo economico richiesto e gli impatti che avrebbe sulla spesa sociale e previdenziale spagnola un finanziamento della difesa che non ricorra a un maggiore indebitamento e al conseguente incremento del deficit di bilancio. Tuttavia, non apre minimamente alla possibilità che, in un Paese con indicatori macroeconomici preoccupanti, come un rapporto debito/PIL intorno al 102% e una spesa pubblica superiore al 45% del PIL, vi possano essere voci di spesa improduttiva, talvolta finanche parassitaria, che possano essere quanto meno razionalizzate. È un oltranzismo che non fa bene anzitutto alla stessa economia spagnola, a prescindere dal parere della NATO.

Se, agli occhi di Madrid, lo sforzo richiesto dagli alleati appare insormontabile è perché, in ambito di difesa e sicurezza, la Spagna ha accumulato nei decenni un ritardo cronico che oggi è difficilmente in grado di recuperare, beneficiando largamente della protezione garantita dagli investimenti dei Paesi amici. Insomma, se ha potuto incrementare le voci di spesa relative allo stato sociale e al mantenimento di un enorme apparato burocratico e amministrativo è anche perché, in fatto di difesa, ha goduto di una cospicua rendita di posizione. In questo, non è sola: neanche Italia, Canada, Belgio e altri membri più piccoli raggiungono la quota del 2% stabilita, ma tutti, nessuno escluso, hanno compreso l’importanza di incrementare gli investimenti e accettato il nuovo accordo. Un’assunzione di responsabilità, questa, che non è certo priva di sacrifici. Al nostro Paese, ad esempio, l’adeguamento ai nuovi target NATO dovrebbe comportare, secondo le stime, a circa 450 miliardi di spesa aggiuntiva nel decennio a venire.

Tra demagogia e opportunismo

Parlare di “scelta sovrana” – invocando, tra l’altro, una parole d’ordine di certa destra così invisa alle compagini progressiste – è davvero poco serio, da parte di Sanchez. Una “scelta sovrana” coerente, se si è così in disaccordo con gli alleati, sarebbe quella di abbandonare la NATO e fare con le proprie (ed esigue) forze, lasciando una Spagna militarmente debole sola sullo scacchiere internazionale, in un’era di tumulti geopolitici e con il sistema multilaterale a repentaglio. Sostenere, infatti, che non sia necessario incrementare gli investimenti militari perché non vi è alcun reale pericolo di essere attaccati significa non comprendere (o far finta di) che, se oggi i membri dell’alleanza sono virtualmente intoccabili, è proprio perché un’unione forte e predominante a livello di armamenti, risorse e tecnologie funge da deterrente a chiunque, da fuori, dovesse mettersi in testa strane brame di onnipotenza.

Investire significa dimostrare alle potenze con cui abbiamo attriti che il patto atlantico non è un relitto novecentesco sul viale del tramonto ma un impegno che esce persino rinnovato e rinvigorito dalle minacce incombenti. Una richiesta seria e apprezzabile, da parte dell’esecutivo spagnolo, sarebbe stata quella di concedere al Paese, in deroga, tempi più lunghi per raggiungere gli obiettivi concordati, magari puntando, in un primo momento, a una già rilevante quota del 3,5%; tempi in cui riformare la macchina dello Stato e cogliere l’occasione per renderla più snella ed efficiente, liberando risorse e recuperando, nel frattempo, anche qualche punto di PIL.

Il pacifismo di facciata e le arringhe populiste sono solo la foglia di fico dietro cui tenta di nascondersi il leader di una maggioranza estremamente frammentata, in cui le pulsioni della sinistra radicale pregiudicano l’adozione di scelte di buon senso. Pedro Sanchez è stretto tra l’incudine della mozione di sfiducia dei partiti più a sinistra e il martello di un’alleanza che chiede alla Spagna di diventare un po’ meno free rider. Come ogni politico, il suo orizzonte temporale è quello di una tornata elettorale. In un Paese in cui sono tanti gli elettori il cui tenore di vita dipende dalla macchina statale, mettere a dieta il Leviatano significa alienarsi molte simpatie. Di sicuro, perseverando in questa linea dettata da un mero calcolo del consenso, se ne alienerà di ben più rilevanti tra chi contribuisce a mantenere la Spagna e gli spagnoli al sicuro.