“Segre non può parlare di genocidio”. Addio, identity politics

Segre non può parlare di genocidio
Stefano Leanza
08/10/2025
Radici

Un aspetto quasi paradossale dell’argomento speso da Francesca Albanese su Liliana Segre, suggellato da un delizioso riferimento alle “pietre d’inciampo” della logica, è la contraddizione di un assioma tipico della sinistra intersezionale.

Si tratta dell’idea che la propria identità, il proprio vissuto, rafforzi o indebolisca la legittimazione a esprimere certe idee o quantomeno certe istanze.
“Da quale pulpito di privilegio il privilegiato di turno si permette di dare lezioni e di non ascoltare la vittima di turno?”

Ed ecco che al contrario, in questo caso, l’aver subito un genocidio renderebbe in qualche modo Segre addirittura meno titolata a parlare, in quanto emotivamente troppo coinvolta, verosimilmente gelosa del proprio genocidio.

Una categoria logica che, quantomeno da sinistra, verrebbe considerata aberrante se venisse applicata (per fare solo due esempi) a una donna che avesse abortito o a un nero che avesse subito violenze dalla polizia.

Il rifiuto di vedere le differenze

In tanto umanitarismo non si arriva a quella capacità di comprendere che la definizione di “genocidio” delle Nazioni Unite, che è oggettivamente ampia, lascia margine per distinguere tra ciò che accade, per esempio, a Gaza, in Cisgiordania, in Ucraina, nel Kurdistan e ciò che è stata la Shoah.
Che è stata, per semplificare un po’, quella cosa per cui, come ci ricordano le “pietre d’inciampo” nelle nostre città, del tutto a prescindere da un contesto bellico, tutte le persone appartenenti a un gruppo etnico venivano prese dalle loro case e dalle loro scuole, incarcerate, messe su un vagone piombato come bestie, portate in un campo, torturate brutalmente, assassinate serialmente, bruciate.

Ora, credo che qualsiasi persona che conservi un minimo di buonsenso, oltre che di umanità, possa convenire che in questo c’è un qualcosa di diverso anche rispetto alla più bieca disumanizzazione cui stiamo assistendo e alle perfino dichiarate volontà di pulizia etnica da parte di alcune autorità israeliane.

Da una persona che sia dotata di un minimo buonsenso e spirito umanitario ci si aspetterebbe, forse, un’accettazione di questa diversità, che la Segre ha segnalato, piuttosto che una censura di cattiva diagnosta in quanto “ex paziente oncologica e non oncologa”.

Questa delegittimazione si estende fino alla Giornata della Memoria, verso la quale si avverte oggettiva stanchezza, come una ritualità non solo vuota ma peggio che vuota: ipocrita rispetto a ciò che sta accadendo oggi dinnanzi ai nostri occhi.
Ma non c’è alcuna consistenza logica nell’idea che i fatti di Gaza dovrebbero delegittimare la Giornata della Memoria.

Anche perché, almeno da sinistra, dovrebbe essere chiaro, ed evidentemente non è, che il ruolo della Memoria non è quello di una medaglia di consolazione alle vittime di ieri (che nella oscena vulgata pro-pal sarebbero i carnefici di oggi, come se le persone incenerite ad Auschwitz meritassero anche tale imputazione) ma è prima di tutto un monito ai figli e ai nipoti dei carnefici di ieri, che saremmo, come Paese, “noi”.

Ma perché tanta passione per la necessità di qualificare come genocidio la tragedia di Gaza, assurta perfino a discrimine tra “uomini e no” del XXI secolo?

Gaza come scacco matto al “sistema”


Io non credo che la ragione stia nella necessità di una “autoassoluzione nazionale” per i crimini del passato, come sostiene qualcuno. Quest’ultima istanza è presente nel Paese, ma è declinata principalmente nel postfascismo incarnato dall’“E allora le Foibe?” e dai suoi affini.

Credo invece che l’origine psicosociale di tale istanza “da sinistra” poggi, in Italia e non solo, su una diversa necessità: quella della battaglia “antisistema”.
Così come da una parte si difendono istintivamente l’ebraismo e Israele come presunte frontiere della borghesia e dell’ordine atlantico, dall’altra si proietta su Gaza, sul genocidio consumato all’ombra dell’occidente – e con la nostra presunta complicità – l’errore di sistema che fa crollare ogni credibilità della società occidentale.

Gaza diviene l’agognato bambino che finalmente grida che il Re del “sistema occidentale” è nudo; che i suoi valori sono un farisaismo.
In questa prospettiva il “genocidio” diviene lo scacco matto psicosocialmente necessario a mettere in fallo il “sistema”: ogni complessità, ogni distinguo, ogni riconoscimento di altrui responsabilità è una cortina fumogena da scacciare con furore, perché rischia di offuscare lo scacco matto valoriale che disvela il “sistema” per ciò che è.

Perché non l’Ucraina?

Credo che in ragioni del tutto analoghe stia la tiepidezza, quando non il livore, manifestati nei confronti dell’Ucraina da ambienti spesso sovrapponibili a quelli che si spendono per Gaza.
Certo, si possono inventare razionalizzazioni che spieghino il fenomeno sulla base dell’invio di armi o dei diversi rapporti diplomatici (come se davvero fossero le azioni e le omissioni del Governo Draghi o del Governo Meloni a portare le persone in piazza e innescare la viralità sui social).
Questo genere di analisi ha la stessa accuratezza di chi cercasse di comprendere le dinamiche delle tifoserie di uno stadio osservando i movimenti del pallone sul campo.

Per quegli ambienti l’Ucraina è stata, ed è tuttora, nel migliore dei casi la figlia “già protetta dal sistema”; nel peggiore la foglia di fico del “sistema” che si dice democratico-liberale, se non addirittura il fiammifero che il “sistema” è pronto ad accendere per scatenare di nuovo la guerra.

Se nel caso di Gaza la complessità è l’oppio dei popoli spacciato dal “sistema” per tutelare le proprie discriminazioni, nel caso dell’Ucraina la complessità diventa l’antidoto alla propaganda tossica del “sistema”.

Riflessi del tutto analoghi si potrebbero individuare anche anche nella pervicace (e non più virtuosa) difesa del “sistema”.
Sono riflessi politicamente umani; che proprio per questo è bene tenere distinti dall’umanitarismo.