Il “pizzino” a Merz e quella Germania che si ostina a mostrarsi debole

Centodieci anni fa, nel furore della campagna in favore dell’entrata in guerra, Benedetto Croce era costretto a scrivere eleganti articoli in cui provava a spiegare che la sua “germanofilia” era una sincera venerazione della civiltà tedesca, non un’approvazione della linea politica del Kaiser e del suo governo.
Vagli a dare torto. Negli ultimi secoli la Germania aveva dato al mondo la riforma luterana, le leggi sul moto dei pianeti, la filosofia moderna, il motore a scoppio, il tram elettrico, la musica sinfonica, l’esplorazione delle particelle subatomiche, il romanticismo, l’espressionismo, Goethe e Thomas Mann. Aveva dato un rigore scientifico all’archeologia, alla filologia, alla sociologia, alla linguistica e alla storiografia.
Al neonato Regno d’Italia, poi, i tedeschi avevano dato un supporto decisivo per il recupero di Venezia e di Roma, nonché una copertura trentennale, con la Triplice Alleanza, che era stata non solo militare e diplomatica ma anche finanziaria.
Difficile, insomma, non capire la fascinazione e la gratitudine di Croce, e insieme il suo dispiacere di fronte a una Germania in carne ed ossa che si era rivelata autoritaria e aggressiva, perfino verso paesi neutrali, e contro la quale l’Italia stava per scendere in battaglia.
Un popolo condannato all’amnesia
Peccato che nessuno abbia considerato i distinguo dei “germanofili” come Croce dopo la fine delle guerre mondiali e la caduta del nazismo, quando le due Germanie, che pure avevano ricevuto da USA e URSS un trattamento economico assai diverso (piano Marshall per l’Ovest, riparazioni massacranti per l’Est), vennero però entrambe condannate a una damnatio memoriae sul loro passato che non ha eguali nella storia recente.
La grande civiltà tedesca dovette essere liquidata in blocco come anticamera del nazismo, come se questo fosse stato il destino obbligato e segreto dei tedeschi fin dai tempi di Alarico.
Vergogna per Kant, vergogna per Nietzsche, vergogna per Bismarck, vergogna per Federico il Grande, e largo ai modelli culturali delle due superpotenze trionfanti.
Poi, negli ultimi decenni, su questo terreno già dissodato sono caduti i semi del wokismo. Prestigiosi istituti tedeschi di storia dell’arte in Italia fanno ricerca sugli indios sudamericani, e nei programmi di alcuni licei si dedica un anno intero alla storia russa e cinese vagliando “i pro e i contro di Stalin e Mao”.
Ma i tedeschi, lo ripeto, subivano già la cancel culture da tre generazioni quando la parola è stata inventata.
È raro che un popolo venga sottoposto a un’amnesia così profonda della propria identità.
Raro e, ovviamente, pericoloso.
Perché se la propria memoria si riduce all’essere stati i nazisti, male assoluto dell’umanità, e poi all’aver fatto di tutto per non somigliare più in nulla ai nazisti (finanche indossando i calzini sotto i sandali), diventa una memoria bipolare, spaccata tra un bianco e un nero, tra un prima e un dopo.
E statisticamente, per la legge dei grandi numeri, presto o tardi ci sarà qualcuno che, deluso dal polo del “bianco” e del “dopo”, e non vedendo in giro alternative, si getterà di nuovo sul polo del “prima” e del “nero”.
La memoria che diventa paralisi
Ciò vale a maggior ragione quando il fantasma del nazismo non infesta solo la memoria del passato, ma le scelte del presente. Non è un segreto che ogni minimo passo mosso dalla Germania rischi di essere accusato di nazismo redivivo.
Si rifà un esercito? “Nazista!”. Manda peacekeeper in una crisi internazionale? “Nazista!”. Non regala ai greci i soldi che avevano finto di avere? “Nazista!”. Preme per l’austerità? “Nazista!”. Lancia invece un piano di investimenti di un trilione? “Nazista!”. Approva il Green Deal? “Nazista!”. Non approva il Green Deal? “Nazista!”. Difende Israele? “Nazista!”. Non difende Israele? “Nazista!”.
Compra il gas russo? “Nazista!” Non compra il gas russo e così accresce l’inflazione? “Nazista!”
È pesante vivere così. E infatti la Germania, almeno dalla riunificazione in poi, si è sempre mantenuta prudente fino all’irrilevanza in qualunque grande crisi.
Ma, se è irrilevante la Germania, a catena è irrilevante anche l’Europa. E nell’era Trump, se è irrilevante l’Europa, sono irrilevanti anche i valori per cui l’Europa si batte.
La campagna elettorale di Friedrich Merz, tutta improntata all’urgenza del momento storico e alla sconfessione delle scelte della Merkel, aveva acceso qualche speranza nei “germanofili” ancora sparsi qua e là per il vecchio continente.
Finalmente la Germania prometteva di non essere più un peso morto tormentato dal suo passato (o, meglio, da una riscrittura distorta del suo passato imposta dai vincitori ai vinti) ma la nazione stabile e pronta a tutto di cui mezzo miliardo di europei ha bisogno in questi anni spaventosi.
Ma al Bundestag “fanno gli italiani”
La strada sembrava spianata: un accordo di coalizione già collaudato, di fatto blindato per quattro anni grazie alla sfiducia costruttiva; 500 miliardi già sbloccati da investire in infrastrutture; una disponibilità generale a stemperare le misure più irrazionali del Green Deal; un basso costo del petrolio che rafforza la Germania e indebolisce la Russia; tre opposizioni sane pronte a raccogliere il malcontento (Verdi, Linke e Liberali); un’Afd sorvegliata dai servizi segreti che si logorerà ad ogni passo falso; l’euro proiettato verso un ruolo di riserva monetaria globale.
Eppure, nel momento in cui più ci voleva una dimostrazione di forza, qualcuno nel Bundestag ha ben pensato di dare al mondo un segnale di debolezza.
Al primo voto di fiducia Merz non ha ricevuto la maggioranza per diventare Cancelliere, che è arrivata soltanto al secondo voto.
Tra le fila della CDU e dell’SPD, insomma, una dozzina di deputati ha agito “all’italiana”: nel segreto della votazione anonima ha mandato al futuro Cancelliere un avvertimento ricattatorio, come a ribadire che la maggioranza è sottile, che può venir meno nei momenti più critici e che bisognerà fare le opportune concessioni per evitare che accada.
Quel “pizzino” però, come ha denunciato all’istante la stampa tedesca, non ha fatto apparire debole Merz: ha fatto apparire debole la Germania, e con lei l’Europa, e con loro i valori per cui l’Europa si batte.
L’orgoglio serve più dei soldi
Tanta ottusità e piccineria non sembrano da tedeschi. Ammesso, s’intende, che ci immaginiamo i tedeschi come se li immaginano i “germanofili” estasiati dal Sigfrido di Wagner e dall’etica di Kant.
Ma neanche i tedeschi immaginano più sé stessi in quel modo. Si immaginano pavidi e perseguitati dal senso di colpa, o, quando proprio non ne possono più e cercano una “Alternative“, si immaginano di nuovo attratti dalle parole d’ordine dell’estrema destra.
Se vogliamo che il pericolo dell’Afd venga neutralizzato, sarebbe sciocco e materialista confidare solo nel decollo economico che Merz sta provando a innescare.
Dobbiamo confidare, invece, nella riscoperta di un orgoglio di essere tedeschi che non preveda teste rasate e nostalgie di purezza etnica sulle note della techno.
Quattro anni basteranno?