Ebbene sì: il mondo poteva vivere anche senza il petrolio russo

ebbene sì il mondo poteva vivere senza petrolio russo
Emanuele Pinelli
24/10/2025
Frontiere

Stanno facendo molto discutere le sanzioni che Trump ha imposto ai due giganti russi del petrolio, la Rosneft e la Lukoil.
E, come al solito, i commenti che fanno più rumore sono quelli più radicali.

“Colpo di grazia” o “inutile suicidio”?

Da un lato ci sono gli ammiratori nostrani di Putin, secondo i quali le sanzioni sono un suicidio, sono come “spararsi sui piedi” (se non in parti ancora più delicate) e non faranno altro che azzerare qualsiasi ruolo occidentale in un commercio che Russia, Cina e India sono comunque in grado di proseguire da sole.

Le sanzioni, a loro dire, sarebbero inutili e confermerebbero per l’ennesima volta che ormai siamo “nel nuovo mondo multipolare”, “nell’era dei BRICS” o “nel secolo dell’Asia”: una constatazione che agli ammiratori italiani di Putin causa malcelati pruriti di piacere (mentre ai cittadini russi causa un fastidio mostruoso, come ha dimostrato un sondaggio del Levada center e hanno confermato i servizi segreti ucraini).

Dal canto loro, gli estimatori di Trump descrivono invece la mossa come un “game changer”: un colpo di grazia finale contro l’industria russa del petrolio, come se dall’oggi al domani neanche più una goccia di oro nero dovesse più raggiungere Mosca o Nuova Delhi.

La giusta prospettiva

È evidente che entrambe le reazioni sono esagerate.

Per smentire gli entusiasti basta guardare la risposta dei mercati: il prezzo del petrolio è cresciuto, ma di meno dell’8% (da 61 a 66 dollari al barile), il che non sarebbe accaduto se i trader avessero previsto la scomparsa improvvisa dal mercato dei 5 milioni di barili al giorno che al momento la Russia esporta.
Anche le quotazioni di Rosneft e Lukoil, nonostante una leggera flessione, restano lontane dal valore minimo che avevano raggiunto all’epoca del Covid.

Per smentire i disfattisti, al contrario, basta guardare la risposta dello stesso Putin e degli stessi cinesi.
Il primo, pur premettendo che le sanzioni trumpiane “non peggioreranno il nostro tenore di vita” (che per decine di milioni di russi è in effetti difficile peggiorare ancora di più), le ha definite “un atto di inimicizia” che “provocherà alcune perdite”.

I secondi invece si sono lamentati delle “sanzioni unilaterali e non concordate con l’ONU”, hanno accusato l’ipocrisia degli USA e dell’UE che “continuano a commerciare con la Russia mentre pretendono che noi non lo facciamo”, hanno spergiurato di “non aver fornito alcun sistema d’arma letale alle due parti in conflitto”: affermazioni logicamente fallaci, ma chiarissime nel segnalare che qualche svantaggio concreto ne verrà anche per Pechino.

A cosa servono davvero le sanzioni

Per fare una stima credibile su quale sarà l’effetto delle nuove sanzioni, bisogna anzitutto ricordare come hanno funzionato finora quelle vecchie.

Dal 2023 ad oggi l’Unione Europea, gli Stati Uniti e la Gran Bretagna hanno gradualmente inserito le aziende russe che producono ed esportano petrolio in una lista nera. Se un’azienda terza fa affari con una di quelle messe in lista, in poche parole, si preclude la possibilità di fare affari con aziende europee, statunitensi e britanniche.

Ad esempio, per esplorare e perforare nuovi giacimenti le corporation russe non possono più acquistare i macchinari direttamente da aziende occidentali: devono tentare di procurarseli con fortunose triangolazioni pagando un sovrapprezzo. Di fatto, le attività esplorative sul suolo russo hanno finito per interrompersi.

Anche la manutenzione periodica delle raffinerie e degli oleodotti, per non parlare della riparazione degli impianti colpiti dai droni ucraini, richiederebbe componenti tecnologiche occidentali. Procurarsele con le triangolazioni ha tempi e costi molto maggiori.

Di fatto, oggi la Russia non è più in grado di raffinare petrolio sufficiente nemmeno per il suo fabbisogno interno di carburante: in questo momento sono 68 su 83 gli stati della Federazione che hanno carenza di benzina o di diesel. Come era prevedibile, anche dai paesi importatori come Mongolia e Kirghizistan stanno arrivando i primi video con le code e le pompe a secco.

Navi fantasma, prezzi horror

Infine, l’export del petrolio greggio. Poiché l’Occidente domina il mercato delle assicurazioni, spostare il greggio dalla Siberia ai paesi compratori (come India, Cina o Turchia) richiede in molti casi l’uso di “navi fantasma” non assicurate.
Il compratore, nel momento in cui decide di sobbarcarsi questo rischio, chiede ai russi una contropartita: un sostanzioso sconto sul greggio, che negli ultimi due anni è equivalso a circa 14 dollari al barile.

Fino al 21 ottobre, quando Trump non aveva ancora annunciato le nuove sanzioni, il petrolio russo veniva quindi comprato da indiani, cinesi e turchi a 47 dollari al barile.
Ma i costi che le aziende russe dovevano sostenere per estrarlo e per spedirlo, per via delle “inutili sanzioni”, erano lievitati fino a 44 dollari al barile. Il margine di guadagno, come si vede, era molto ristretto.

Meno petrolio, più tasse e debiti



Non c’è da stupirsi se quest’anno il Cremlino pensava di incassare dalle tasse su petrolio e gas appena 85 miliardi di euro, contro i 110 dell’anno scorso e i 100 di due anni fa.

Ma solo per occupare l’Ucraina il Cremlino quest’anno sta sprecando 160 miliardi. Gli incassi da petrolio e gas avrebbero quindi finanziato poco più di metà della spesa militare: il resto, inevitabilmente, era destinato ad essere coperto da aumenti delle tasse e indebitamento selvaggio.

Ora, però, l’aumento delle tasse si sta abbattendo su un paese dove tutti i comparti industriali eccetto quello militare sono in perdita. Se alla crescita della produzione industriale dello 0,8% anno-su-anno si sottrae il settore militare, il resto dell’industria risulta in piena recessione.
Quante tasse in più si possono spremere da un popolo che si sta impoverendo?

Quanto all’indebitamento, sempre a causa delle “inutili sanzioni che sono come spararsi su un piede”, Putin non può negoziarlo con prestatori esteri: ha quindi forzato le banche russe a prestare soldi allo stato, prosciugando rapidamente le loro riserve liquide (19 miliardi di euro a fronte di un debito di oltre 60).


La spinta di Trump


In questo contesto già fragile, possiamo a questo punto provare a stimare l’impatto che avrà la mossa di Trump.

  • Uno shock di qualche mese. La novità principale è che Rosneft e Lukoil non potranno più scambiare il loro petrolio in dollari, e un sistema alternativo per scambiarlo in yuan o in rupìe non si improvvisa dall’oggi al domani.

    Può darsi, quindi, che India e Cina ridurranno per qualche mese i volumi di petrolio acquistati a Mosca, comprimendo le sue entrate del 2025 ad ancora meno degli 85 miliardi che erano stati preventivati. Il tutto alla vigilia del mese di dicembre, quando lo stato russo deve compiere il peggiore esborso dell’anno.

  • Spargere il sale dove passano i droni ucraini. Rosneft e Lukoil, in realtà, gestiscono soltanto il 30% dell’estrazione di petrolio russo e il 35% della sua raffinazione. Ma gli impianti di loro proprietà sono proprio quelli della Russia europea che da agosto sono sotto l’attacco continuo dei droni di Kiev.
    Le sanzioni potenziate di Trump potrebbero convincere Putin che quelle raffinerie sono ormai irreparabili o comunque non riattivabili a regime.

    Sarebbe una buona notizia, perché il sistema petrolifero russo è geograficamente rigidissimo: sono quelle raffinerie ad alimentare le regioni al confine con l’Ucraina e le forze di occupazione dentro l’Ucraina.

  • Riallineamento dell’India. Se già solo l’India smettesse di comprare dalla Russia gli 1,6 milioni di barili al giorno che le compra al momento, aprirebbe un buco nero nel bilancio di Putin, anche senza scomodare la Cina.

    Ad ogni buon conto, un ministro del Kuwait ha annunciato che i paesi del Golfo sono pronti a sostituire tutto il petrolio russo che dovesse uscire dal mercato: la loro capacità aggiuntiva è stimata fra i 3 e i 4 milioni di barili al giorno. Nuova Delhi verrebbe compensata del “danno” con una riduzione dei dazi americani sulle sue merci (si parla del 15% invece del 50%).

Il “mondo nuovo” non conviene a Putin

È questo, forse, l’aspetto da tenere più a mente nel lungo periodo: al contrario di quello che ci hanno raccontato per tre anni, il petrolio russo non è insostituibile.

Nel “nuovo mondo multipolare” e nel “secolo dell’Asia” è diventato virtualmente possibile fare a meno del petrolio russo, proprio come è diventato virtualmente possibile fare a meno dei chip cinesi (e lo sta dimostrando la vicenda Nexperia).

Le stesse triangolazioni e ristrutturazioni della supply chain di cui Russia e Cina hanno tanto approfittato possono essere messe in atto dai paesi che da Russia e Cina si vogliono sconnettere.

Il dittatore russo non si è ritrovato isolato per via dei cambiamenti nella politica mondiale (che anzi si è fatta sempre più comprensiva verso le sue idee), ma per via dei cambiamenti nell’economia mondiale.

E se, a Dio piacendo, sarà sconfitto in Ucraina, sarà sconfitto per questo.