Perché sulla scuola è divampato un dibattito a vanvera

Da qualche giorno a questa parte, nel mondo virtuale, dilaga il panico sulle nuove linee-guida che il ministro Valditara ha annunciato per le scuole medie.
Si parla di latino e di lettura della Bibbia come se fossero nuovi corsi obbligatori imposti a tutti. Si paventa un divieto di insegnare la storia di paesi esterni all’Europa occidentale. Se ne approfitta per fare sfoggio dei propri valori lanciando controproposte alternative: “Altro che latino, ci vorrebbe l’informatica!” “Altro che Bibbia, ci vorrebbe la statistica!” “Altro che storia, ci vorrebbe l’economia!”. Nella perdurante illusione che i nostri figli siano come degli smartphone sui quali la scuola è chiamata ad installare l’una o l’altra applicazione, in tanti hanno proposto il loro ventaglio di applicazioni preferite, che, nei loro piani, dovrebbero meccanicamente creare una società più moderna, più ricca, più giusta o più umana.
Ovviamente, nel mondo reale, le cose stanno in tutt’altro modo.
I “programmi ministeriali” non esistono più da decenni. I professori godono di totale autonomia didattica, rispetto alla quale i ministri che si avvicendano a viale Trastevere possono al massimo proporre “indicazioni” o “linee-guida” che elencano suggerimenti od opzioni non vincolanti.
Porto sempre lo stesso esempio: la maggior parte dei docenti di storia si ostina a non trattare i fatti del secondo ‘900 in spregio a qualsiasi “indicazione” o “linea-guida” che sia uscita sulla loro materia.
Siamo pronti a scommettere, perciò, che il “ritorno ai secoli bui” di Valditara si ridurrà al consiglio di leggere, se si vuole, qualche pagina della Bibbia per chiarire argomenti letterari o storici, di fare, se si vuole, pochi contenuti di storia nel dettaglio invece di grandi infarinature superficiali, e di aggiungere, se si vuole, qualche rudimento di latino alla grammatica italiana. Iniziative che, peraltro, molti insegnanti delle scuole medie prendono già spontaneamente.
Questa tempesta in un bicchiere, però, ha rivelato per l’ennesima volta quanto l’opinione pubblica italiana abbia ancora sulla scuola un’idea datata, centralizzata e clericale. La gente si immagina un ministero che dà gli ordini e 800.000 insegnanti che li eseguono come solerti operai in un’officina: un’immagine che non corrispondeva alla realtà nemmeno ai tempi del libro Cuore.

E dunque tutti litigano su “cosa si dovrebbe fare nelle scuole” e “cosa non si dovrebbe fare nelle scuole“, con un piglio paternalista e indottrinatore che trovo francamente sconfortante.
Non fanno eccezione, purtroppo, nemmeno gli amici che su qualsiasi altro argomento difendono il libero mercato. Questi invocano a gran voce scuole con le lingue straniere moderne, scuole con la statistica, con l’economia, con informatica…
Ebbene, queste scuole dei sogni esistono: sono, con diverse sfumature, l’istituto tecnico-economico e il liceo economico-sociale. Il problema è che vengono scelti rispettivamente dal 12% e dal 4% dei nuovi iscritti: in breve, vengono ogni anno sconfitti proprio dal mercato.
Di fronte a questo smacco, anche il liberista più ortodosso perde le staffe e pretende che le sue materie del cuore vengano imposte con la forza a qualsiasi studente. Dimenticando, nella foga, proprio gli insegnamenti elementari dell’economia a cui dà tanta importanza: in questo caso i problemi che sorgono quando si cerca di imporre a migliaia di consumatori l’acquisto di un bene scarso.
Insomma: se anche si introducesse l’informatica obbligatoria in tutte le scuole, dove si troverebbero le decine di migliaia di adulti capaci di programmare ma disposti a fare gli insegnanti a 1500€ al mese invece di usare in modo più fruttuoso il loro talento?
Quanti laureati in economia si precluderebbero carriere più remunerate per impaludarsi nella scuola? Oggi c’è già una carenza drammatica di insegnanti di matematica e di scienze naturali: rendendo obbligatorie anche discipline come la statistica non si aggraverebbe solo la carestia?
In conclusione, mi pesa ammetterlo ma la zoppicante scuola italiana ha comunque un approccio all’educazione più liberale, più laico e più realistico rispetto a gran parte della società che la circonda.
La cultura sessantottina ha compiuto un doppio capolavoro: da un lato ha plasmato la scuola italiana a sua immagine e somiglianza, rendendola facile, accudente, decentralizzata e permeabile a qualsiasi campagna politica open-minded (al punto che, nello stilare il Piano di Offerta Formativa del mio liceo, ho dovuto specificare quali fossero le attività per il “superamento dell’antropocentrismo”); dall’altro però si è premurata di non farlo sapere a nessuno.
Così l’immensa maggioranza del paese continua a pensare che i ragazzi italiani frequentino una scuola autoritaria, verticistica e inchiodata nel passato, gli eredi dei sessantottini possono continuare a gridare i loro slogan come se la loro battaglia fosse ancora da vincere, e i cantori del capitalismo globalizzato riescono a immaginarsi come unica alternativa una scuola altrettanto autoritaria e verticistica anche se proiettata nel futuro.
Un vero capolavoro, che pagano i nostri figli.
