Palestina vs Hamas: Israele arma una milizia palestinese contro Hamas

Nel cuore di Rafah, città martoriata nel sud della Striscia di Gaza, si muove un attore imprevisto nella complessa e brutale dinamica del conflitto israelo-palestinese. Una nuova milizia palestinese, armata e indirettamente sostenuta da Israele, ha cominciato a operare in funzione anti Hamas, sollevando interrogativi profondi sul futuro della Striscia, sulle strategie del governo israeliano e sulla tenuta della società palestinese devastata da mesi di guerra e decenni di occupazione.
Un piano segreto dello Shin Bet
Secondo quanto riportato da fonti israeliane e arabe, il piano per costituire un gruppo armato palestinese alternativo a Hamas sarebbe stato ideato circa sei mesi fa dallo Shin Bet, il servizio segreto israeliano per la sicurezza interna, e approvato dal primo ministro Benjamin Netanyahu. Il gruppo, che si fa chiamare “servizio antiterrorismo” o “forze popolari”, sarebbe composto da circa cento uomini, guidati da Yasser Abu Shabab, un personaggio controverso con forti legami nella parte meridionale di Gaza.
La sua figura è avvolta da narrazioni contraddittorie: da una parte, ex detenuto di Hamas scappato durante un bombardamento israeliano; dall’altra, presunto membro del clan beduino Tarabin, accusato di traffici illeciti, ma anche sospettato da settori della destra israeliana di legami con l’estremismo salafita. Accuse gravi, ma prive di riscontri verificabili.
Il doppio gioco dell’intelligence e la linea ambigua di Netanyahu
La decisione di armare una milizia palestinese rappresenta un cambiamento tattico significativo, che tuttavia non è stato condiviso nemmeno con il gabinetto di sicurezza israeliano. Il fatto che Netanyahu abbia scelto di agire senza coinvolgere i suoi ministri più radicali suggerisce l’estrema delicatezza politica di questa operazione. E forse anche il suo carattere sperimentale e precario.
L’obiettivo, nel breve termine, sembra essere quello di creare un’alternativa locale a Hamas nella gestione del territorio, soprattutto nel sud di Gaza, dove Israele intende concentrare la popolazione civile palestinese. La milizia avrebbe anche il compito di collaborare con l’esercito israeliano nella distribuzione degli aiuti umanitari, attività ormai sottratta alle ONG indipendenti in gran parte smantellate o rese inoperanti dai bombardamenti.
Guerra per procura e memoria storica
In sostanza, quella che si sta delineando è una guerra per procura interna a Gaza, in cui Israele tenta di strumentalizzare il malcontento diffuso tra i palestinesi verso Hamas. È un piano che richiama pericolosamente una pagina del passato: negli anni ’80, lo stesso Stato israeliano non ostacolò la nascita di Hamas, nella speranza che potesse indebolire l’OLP e il movimento Fatah, allora egemone.
Oggi, la storia sembra chiudere un ciclo: una milizia filo-Fatah contro Hamas, appoggiata da Israele, nel tentativo di riconfigurare l’equilibrio politico locale.
Ma se il precedente è un monito, non è incoraggiante. Le dinamiche di potere che nascono in condizioni di occupazione militare, frammentazione sociale e interventismo esterno difficilmente generano stabilità. Piuttosto, rischiano di aprire nuovi fronti di conflitto, frammentare ulteriormente la società e delegittimare qualsiasi leadership palestinese alternativa.
L’ambiguità dell’Autorità nazionale palestinese
Il capo della nuova milizia ha dichiarato di operare sotto la guida dell’Autorità nazionale palestinese (Anp), il governo cisgiordano dominato da Fatah e riconosciuto dalla comunità internazionale. Ma il sostegno dell’Anp, sempre più screditata agli occhi della popolazione per corruzione e inefficienza, rischia di compromettere la legittimità stessa della milizia.
Se agli occhi di molti palestinesi Hamas è ormai sinonimo di autoritarismo e gestione predatoria, l’Anp non è percepita come una credibile alternativa democratica, bensì come una struttura distante e compromessa.
L’associazione tra la milizia e l’Anp, inoltre, non sembra coerente con le accuse di affiliazione allo Stato islamico mosse da esponenti della destra israeliana. L’Isis, infatti, considera l’Anp una “giunta di infedeli” e mai permetterebbe a un proprio affiliato di riconoscerne l’autorità. È dunque evidente che ci si trova in un terreno opaco, dove le etichettature ideologiche servono più a delegittimare che a comprendere.
Motivazioni materiali e sopravvivenza
In un contesto di distruzione massiccia e assenza di prospettive economiche, anche un salario mensile di 650 dollari può rappresentare una motivazione potente per entrare in una milizia armata. Soprattutto per giovani palestinesi senza più casa, lavoro o orizzonte, le armi possono diventare non solo strumenti di potere, ma strumenti di sopravvivenza.
Israele, consapevole della frattura sociale all’interno di Gaza e della rabbia crescente verso Hamas, sembra voler capitalizzare sul disincanto e sulle rivalità locali per costruire un’alternativa di controllo meno costosa e più sostenibile sul piano internazionale. Ma questa strategia, per quanto pragmatica, non affronta le cause profonde del conflitto: l’assenza di uno Stato palestinese sovrano, l’occupazione militare, l’embargo, il collasso delle istituzioni civili.
Una strategia a breve termine con rischi a lungo termine
Ciò che appare evidente è che questa nuova milizia non rappresenta un progetto politico, ma un dispositivo tattico, utile a Israele per gestire il presente, senza offrire una visione per il futuro. In assenza di un piano per la ricostruzione politica di Gaza, ogni tentativo di ingegneria sociale rischia di trasformarsi in un boomerang.
Il rischio più grave è che si riproducano le logiche tribali, clientelari e settarie che hanno già devastato altre aree del Medio Oriente, dalla Siria alla Libia. Una milizia può combattere Hamas, ma non può sostituire uno Stato, né creare legittimità dal basso. Al contrario, può rafforzare la percezione che ogni leadership palestinese sia strumentale a potenze esterne.
Tra cinismo geopolitico e assenza di visione
Nel quadro di una guerra sempre più brutale e disumanizzante, la nascita di una milizia palestinese anti Hamas finanziata da Israele rappresenta una mossa tattica audace ma rischiosa, carica di implicazioni morali, politiche e strategiche. Più che una soluzione, appare come un tentativo di guadagnare tempo, spostare il conflitto all’interno della società palestinese e controllare Gaza senza occuparla formalmente.
Ma in Medio Oriente, i vuoti politici raramente restano vuoti a lungo. E se la comunità internazionale non saprà promuovere una visione credibile di pace, giustizia e autodeterminazione, nessuna milizia, nessun piano segreto potrà stabilizzare una regione che da troppo tempo conosce solo il linguaggio della forza.
