Tra Oscar Wilde e Dostoevskij. La Bellezza che ride e che salva
Oltre l’esteta
A pochi giorni dall’anniversario della sua nascita, — il 16 ottobre 1854, — rileggere oggi Oscar Wilde provoca emozioni profonde. Non è soltanto l’umorismo geniale che incanta, ma la densità spirituale che attraversa le sue opere come una corrente sommersa. La figura dell’esteta leggero, del dandy raffinato, ha spesso oscurato l’altra metà della sua natura: quella di un uomo che cercava nella bellezza una via alla verità. Molti critici hanno ridotto Wilde a un edonista ironico — come se il suo “godere della vita” fosse una fuga dal dolore. È l’errore di chi dimentica che per lui l’esperienza estetica era un sacramento laico, un modo per toccare il divino nella carne del mondo.
La bellezza e la fede
Il senso comune separa il piacere estetico dalla religione, ma Wilde ne percepisce l’unità profonda. La bellezza, per lui come per i mistici, non è ornamento, ma rivelazione. In questo lo avvicina agli scrittori russi dell’Ottocento, soprattutto Dostoevskij e Gogol’. Nell’Idiota, Dostoevskij fa dire al principe Myškin che “la bellezza salverà il mondo”, ma nei Fratelli Karamazov Dmitrij aggiunge che essa è “un mistero terribile”: la stessa forza che può redimere o precipitare, «e il campo di battaglia è il cuore dell’uomo». Wilde, in un contesto diverso, percorre la medesima strada: l’arte è per lui via alla misericordia, la bellezza salva se sa prima ridere di sé e perdonare.
Nello studio di Dostoevskij, dentro alla sua ultima abitazione a San Pietroburgo, era appesa una copia della «Madonna Sistina» di Raffaelo conservata al Museo di Dresda, meta di una sorta di pellegrinaggio culturale da parte di diversi scrittori russi. Nella casa di Wilde si trovavano foto del papa Pio IX e di Henry
Edward Manning, pastore della Chiesa anglicana che si convertì al cattolicesimo romano e divenne arcivescovo di Westminster; ma non basta: una statua di una Madonna di gesso accoglieva sempre i suoi ospiti. Com’è noto, peraltro, il figlio Vibia gli ispirò “Il ritratto di Dorian Gray”, quello stesso Vivian che sarebbe divenuto anche egli sacerdote.
Il giovane re e il Cristo della compassione
Fra le sue “Favole per bambini”, Il Giovane Re è forse la più sconvolgente. Un principe, allevato nella povertà, scopre alla vigilia dell’incoronazione che le sue vesti sono frutto di dolore e sfruttamento. Di fronte al vescovo che lo esorta a obbedire al “saggio ordine del mondo”, egli risponde: «E dovrà dunque Gioia indossare il vestito che ha forgiato Dolore?». Il dialogo fra il giovane re e il vescovo in Wilde sembra
come riprendere dal silenzio del Cristo di fronte all’Inquisitore in Dostoevskij.
La scena culmina nell’incontro con l’icona di Cristo, davanti alla quale il giovane comprende che la vera regalità è quella del sacrificio, la bellezza non è l’oro che risplende, ma la trasparenza del dono. Non è un moralismo, ma una rivelazione: la bellezza che redime nasce dalla compassione, non dal privilegio.
Nel finale, la luce che lo avvolge e i gigli che fioriscono dal suo bastone non sono effetti miracolosi, ma segni della grazia. Wilde racconta una trasfigurazione che non distrugge l’estetica, ma la eleva alla teologia.
La bellezza come trasformazione del mondo
La bellezza, per Wilde come per Dostoevskij, non è mai neutra. Può essere “di Sodoma” o “della Madonna”, demoniaca o divina. È autentica solo se nasce da un cuore libero dalla crudeltà. Nel grande discorso cristiano, la redenzione non è l’unico fine: il destino ultimo dell’uomo è la divinizzazione.
Lo intuì Duns Scoto, secondo cui anche se Adamo non avesse peccato, Dio si sarebbe comunque incarnato: non solo per redimere, ma per condividere la sua energia creatrice. Wilde, nel suo modo paradossale, afferma la stessa verità: la bellezza è partecipazione all’essere di Dio. Non basta espiare, bisogna trasfigurare. È qui che la sua arte si fa quasi teologica — laico annuncio di una salvezza attraverso la forma.

Conversione e grazia
Un altro critico distratto ha sottolineato come tutti gli atti di eroismo altruistico in Wilde siano segnati da un finale narrativo colmo di indifferenza, scherno o inutilità per lo meno in questo mondo. Primo, ci sarebbe da discuterne e da analizzare ognuno di questi finali. Secondo, stupisce come si ignori il finale del «Giovane Re».
Nel «Principe felice», invece, la statua che si spoglia volontariamente e la rondinella di lei innamorata che perisce nell’inverno senza emigrare altrove pur di portare a chiunque ne abbia bisogno i tesori della statua, — sono premiati solo nell’Aldilà, è vero. Tuttavia già nel «Gigante egoista» la conversione del Gigante porta benessere a tanti bambini per tanti anni rallegrando lo stesso Gigante, e nel finale il protagonista scopre in punto di morte che il bambino visto all’inizio del racconto, causa della sua
conversione, e atteso di nuovo e invano per tutta la vita, è Gesù stesso, che gli mostra difatti sulle proprie manine e sui propri piedini «le ferite dell’Amore».
Il punto qui non è accettare o meno il punto di vista della fede, ma rispettare la verità wildiana in tutti i suoi aspetti. Alla fine della vita, Wilde si convertì al cattolicesimo. Disse al Daily Chronicle: «Buona parte della mia perversione morale è dovuta al fatto che mio padre non mi permise di diventare cattolico. L’aspetto artistico della Chiesa e la fragranza dei suoi insegnamenti mi avrebbero guarito dalle mie degenerazioni».
Morente, fu assolto da un sacerdote irlandese. Ma la sua fede era maturata da tempo: durante un’udienza con Leone XIII, raccontò di aver sentito “la fragilità del corpo e dell’anima scivolare via come un abito consunto”. A quel papa attribuì addirittura la guarigione da una malattia della pelle. La sua conversione non fu rinuncia alla libertà, ma il tentativo di trasformare la sofferenza in bellezza.
Una lezione per l’oggi
L’accento posto oggi dal nuovo papa sulla lotta contro la miseria e contro le guerre ricorda di certo, come dichiarato dallo stesso Prevost nella scelta del nome Leone, il pontificato di Leone XIII al quale Oscar Wilde si sentì così legato.
C’è da auspicare allo stesso tempo che il ricordo del grande scrittore irlandese e la lettura della sua opera aiutino anche a tenere lontane nuove chiusure e condanne di carattere non tradizionale, ma tradizionalista. Oscar Wilde dové patire il carcere poco più che quarantenne a causa delle sue esperienze omosessuali (peraltro non carattere assoluto della sua vita: fu marito tenerissimo e padre di due amatissimi figli) e nonostante tutta la sua meritata fama: esistevano tali, pessime, leggi nell’Inghilterra di quegli anni.
Sarebbe morto pochi anni dopo all’età di appena 46 anni, il 30 novembre del 1900, salutandoci prima che iniziasse il secolo delle guerre mondiali e dei totalitarismi, oltre che del più grande progresso tecnologico di sempre. Oggi, in un mondo segnato da guerre e da nuove idolatrie, Wilde parla ancora con voce profetica.
Ricorda che la bellezza non è lusso, ma necessità dell’anima; che non esiste arte senza compassione, né fede senza libertà interiore. Come Dostoevskij, egli sapeva che la salvezza non nasce dal potere, ma dalla tenerezza.
E se ci fosse lecito costruire una preghiera con i pensieri di Wilde, sarebbe questa:
Padre nostro, facci vivere tutti e non solo esistere. Allontana da noi il regno della miseria e della colpa. Non lasciarci in balìa di un mondo in cui i forti schiacciano i deboli in guerra, e i ricchi fanno lo stesso in pace. Dona a ciascuno la capacità di amare davvero sé stesso, che è l’inizio di ogni amore. E fa’ che la Bellezza resti negli occhi e nel cuore di chi la guarda.










