Non esiste Gaza, ma un mosaico di clan. Disarmiamo anzitutto la retorica
Come ci spiega bene Isaia Urbani nel suo recente articolo, dietro il nome di Gaza non c’è un popolo unico, ma un mosaico di clan, famiglie estese e confederazioni tribali. Chi ha vissuto a lungo nella regione sa che la Striscia è un arcipelago di poteri locali, di hamula che competono tra loro per sopravvivenza, territorio, contrabbando e onore.
Eppure, nell’immaginario occidentale – e ancor più nelle università e nei cortei – Gaza viene rappresentata come un corpo unanime, un simbolo limpido della sofferenza collettiva e della resistenza contro Israele.
Una rappresentazione poetica e consolante, ma che finisce col tradire la realtà. Hamas, infatti, non si è misurato solo con Israele: ha dovuto combattere una molteplicità di nemici interni. Clan come i Doghmush, i Hilles, gli Abu Shabab o i Samhadana si sono scontrati più volte con le milizie islamiste in vere e proprie battaglie urbane.
Alcuni – come il clan Abu Shabab, di origine beduina tarabin – hanno formato addirittura le “Popular Forces”, gruppi armati anti-Hamas che, secondo fonti locali, avrebbero ricevuto un limitato sostegno israeliano.
Altri, come i Khalas nel nord o i Mujaida a Khan Yunis, sono stati duramente repressi. La stampa internazionale ha raccontato di esecuzioni, vendette e faide che ricordano, più che un fronte politico, un reticolo di micro-sovranità in lotta.
Hamas ha cercato di cooptarli, ma non li ha mai davvero unificati. La realtà è che nessuno potrà “disarmare Gaza” se non si comprende prima questa struttura profonda: non un partito, ma una costellazione di clan dove ogni appartenenza coincide con la sopravvivenza.
Le molte Gaza
Nella Striscia operano decine di clan influenti, veri e propri poteri paralleli con radici storiche, economiche e militari. Tra i più vasti e noti: al-Masri (circa 20.000 membri), Kafarna, Hilles, Doghmush, Abu Samhadana, Khalas, Shawwa, Abu Middain, Abd al-Shafi, Mughani. A questi si aggiungono decine di altre famiglie minori, legate a territori specifici. Un quarto della popolazione ha origini beduine e appartiene a sei saff (confederazioni tribali), ciascuna delle quali a sua volta è composta da una dozzina di asha’ira (tribù), per un totale di almeno settantadue lignaggi.
Le hamula moderne non coincidono più con le tribù beduine, ma ne conservano la logica: solidarietà interna assoluta e diffidenza verso ogni potere centrale. In un simile contesto, anche un eventuale disarmo di Hamas non garantirebbe la pace: dissolverebbe un’autorità unica lasciando emergere decine di poteri armati concorrenti.
La rimozione occidentale
Il 7 ottobre 2023 Hamas e altri gruppi terroristici compirono un attacco improvviso, penetrando in Israele, uccidendo circa 1.200 persone, di cui oltre 800 civili, e prendendo in ostaggio 250 persone, compresi 30 bambini, di cui conosciamo la triste storia.
Bisogna ricordarlo non per sminuire i massacri successivi compiuti dal governo israeliano, ma per riconoscere un tratto mentale tipico del nostro tempo: la tendenza a negare il certo, in nome del «vero».
La stessa Hamas filmò e diffuse la propria violenza come strumento di terrore; eppure, due anni dopo, c’è chi arriva a sostenere che quelle immagini siano finzioni propagandistiche. È il segno di un bisogno ideologico più che di un dubbio critico: credere solo a ciò che conferma la propria tesi, negando la realtà stessa.
Nelle piazze e nei campus europei, purtroppo, una parte del mondo intellettuale continua a leggere la questione palestinese come una lotta fra Bene e Male, riducendo Gaza a un’icona di purezza rivoluzionaria.
Si dimentica che l’Occidente stesso porta sulla propria coscienza secoli di antigiudaismo (prima pagano e poi cristiano) e di antisemitismo laico, di destra e di sinistra.
La creazione dello Stato di Israele fu anche un atto di espiazione collettiva: la decisione di un’Europa devastata di scaricare il peso della propria colpa su un’altra regione, affidando a un lembo di terra mediorientale la convivenza impossibile tra vittime diverse della Storia.
Dimenticarlo oggi, azzerando la memoria e salvandola selettivamente, significa proiettare all’esterno le nostre contraddizioni e rifugiarsi in una purezza illusoria.
È una forma di autoassoluzione travestita da solidarietà.
Non un invito al pessimismo, ma una sfida alla coscienza
La mia analisi – e la mappatura che la accompagna – non vuole spingere al pessimismo, ma alla cautela. La questione israelo-palestinese è tra le più difficili del nostro tempo e richiederebbe un’unità intellettuale occidentale che oggi non abbiamo: la capacità di discutere senza slogan, di conoscere prima di giudicare, di riconoscere che nella tragedia mediorientale si specchiano le nostre fratture più antiche.
Il vero disarmo, forse, comincia da qui: dal disarmo della retorica e della memoria selettiva. Solo allora potremo tornare a pensare la pace non come un’astrazione ideologica, ma come un compito condiviso tra le civiltà che si affacciano sullo stesso mare. Quel Mediterraneo che fu la culla di Atene, Gerusalemme, Roma e Cordova – dove le tre fedi seppero per un momento parlare la stessa lingua della conoscenza. Quel Mediterraneo che oggi attende, più che mai, un linguaggio comune di verità e di giustizia.








