Mosca vuole il ritiro NATO dal Baltico: ecco perché il Patto NATO-Russia del 1997 va abolito

Nel lessico politico russo, il concetto di “zone di influenza” non è mai scomparso. Anzi, riemerge regolarmente nei momenti di massima tensione con l’Occidente. È accaduto ancora una volta nelle scorse settimane, quando il vice ministro degli Esteri russo Sergei Ryabkov ha chiesto esplicitamente il ritiro della NATO dagli Stati baltici, come condizione per un futuro “accordo di pace”. Una richiesta sconcertante, ma non nuova, né casuale: affonda le sue radici in un patto firmato nel 1997, il cosiddetto NATO-Russia Founding Act.
A ricordarlo con lucidità e fermezza è Gabrielius Landsbergis, ex ministro degli Esteri della Lituania, in un articolo pubblicato sul suo blog. Quell’accordo, scrive Landsbergis, «è stato un errore fin dall’inizio», e oggi rappresenta un freno pericoloso a una vera strategia di deterrenza contro Mosca. In altre parole, è giunto il momento di archiviarlo ufficialmente.
Le origini dell’accordo: un gesto di buona volontà
Il Founding Act on Mutual Relations, Cooperation and Security between NATO and the Russian Federation, firmato il 27 maggio 1997 a Parigi, nasceva in un contesto del tutto diverso. La Russia era debole dopo il crollo dell’Unione Sovietica, la NATO in espansione, e il timore era che l’ingresso di ex paesi del Patto di Varsavia nell’Alleanza potesse scatenare reazioni imprevedibili da parte di Mosca.
Per questo, l’atto stabiliva un’intesa politica – non vincolante dal punto di vista giuridico – in cui le parti si impegnavano a collaborare, a rispettare la sovranità e l’integrità territoriale degli Stati e ad affrontare insieme le sfide comuni alla sicurezza europea. In cambio dell’accettazione (mai formalmente sancita) dell’allargamento NATO, Mosca otteneva un impegno da parte dell’Alleanza a non installare “forze combattenti permanenti sostanziali” nei nuovi Stati membri, cioè quelli entrati dopo il 1997.
Quel termine – substantial – volutamente vago, divenne presto il cuore di un’ambiguità funzionale: permettere la presenza di truppe rotazionali, basi logistiche, esercitazioni su larga scala, ma non “basi permanenti” in senso classico.
Per un decennio e più, l’illusione che questa architettura potesse reggere si è mantenuta. Ma nel frattempo, la Russia ha progressivamente abbandonato ogni pretesa di cooperazione.

Il patto violato (da Mosca)
La prima crepa risale al 2008, con la guerra contro la Georgia. Poi, nel 2014, l’annessione della Crimea. Infine, nel 2022, l’invasione su larga scala dell’Ucraina. Con ogni nuova aggressione, Mosca ha calpestato i principi su cui si reggeva l’Atto fondativo: il rispetto delle frontiere, il rifiuto dell’uso della forza, la risoluzione pacifica dei conflitti.
Eppure, sottolinea Landsbergis, l’atto resta tecnicamente in vigore. Dopo l’invasione dell’Ucraina, la NATO ne ha dichiarato la “morte politica”, ma non lo ha mai formalmente denunciato. Questo silenzio giuridico, scrive l’ex ministro, è oggi una pericolosa concessione retorica a Mosca, che continua a presentare le sue richieste – come il ritorno ai confini NATO del 1997 – come rivendicazioni legittime, sostenute da un accordo che in realtà ha violato per prima.
Una NATO a due velocità
Il problema è concreto. Per non “provocare” Mosca, la NATO ha finora evitato di creare basi permanenti ad Est. Le forze statunitensi in Polonia sono ruotate, così come quelle britanniche e canadesi in Estonia e Lettonia. La brigata tedesca destinata alla Lituania sarà sì stanziale, ma presentata come “non sostanziale”, rientrando nelle ambiguità dell’accordo del 1997.
Come ha spiegato Alexander Vershbow, già ambasciatore statunitense alla NATO e poi vice segretario generale dell’Alleanza, «l’obiettivo era evitare che la Russia considerasse l’allargamento come un’aggressione. Ma si trattava di un’intesa basata su buona volontà reciproca – e Mosca ha smesso di rispettarla da tempo».
Questa cautela ha generato una NATO a due livelli, in cui alcuni membri – in particolare quelli orientali – sono meno protetti di altri. La deterrenza, osserva, non può essere efficace se è percepita come selettiva.
Del resto, durante la Guerra Fredda, l’Alleanza manteneva fino a 400.000 soldati dispiegati lungo il confine con il Patto di Varsavia. Oggi, al confronto, le forze NATO sul fianco est appaiono modeste, soprattutto se condizionate da accordi che la Russia ha già reso carta straccia.
Il rischio strategico dell’ambiguità
Perché allora l’Atto non viene formalmente abrogato? Alcuni temono che una sua denuncia formale possa alimentare ulteriori tensioni con Mosca. In questa visione, mantenere l’apparenza di moderazione servirebbe a non legittimare le accuse russe di espansione ostile. Ma è una strategia, osserva, fondata su una speranza illusoria: che la Russia possa essere contenuta attraverso segnali di buona volontà.
La realtà, però, dice altro. Come sottolinea lo stesso Landsbergis, «ogni volta che l’Occidente cede terreno, la Russia lo prende e ne chiede altro». Il Cremlino non interpreta la moderazione come prova di equilibrio, ma come segno di debolezza.
Anche per questo, recenti allarmi lanciati dai servizi di intelligence europei non vanno sottovalutati. Il capo dell’intelligence tedesca, Bruno Kahl, ha avvertito che Mosca potrebbe presto “testare” la coesione dell’Alleanza attraverso operazioni ibride o provocazioni mirate, nella speranza di suscitare divisioni tra gli alleati.
Dichiarare nullo l’accordo: una scelta politica
Di fronte a questo scenario, la proposta di Landsbergis è semplice e radicale, e secondo noi estremamente condivisibile: dichiarare ufficialmente nullo l’Atto fondativo del 1997. Non per spirito revanscista, ma per ristabilire chiarezza strategica. Finché l’accordo esiste sul piano formale, sostiene, Mosca potrà continuare a usarlo come leva diplomatica, distorcendo la realtà dei fatti e accusando la NATO di essere venuta meno agli impegni.
Al contrario, riconoscere che le condizioni che avevano dato vita all’accordo sono venute meno – a causa delle azioni russe – significa liberare l’Alleanza da un vincolo obsoleto, e rafforzare il principio secondo cui ogni Stato membro merita la stessa protezione, da Vilnius a Berlino, da Riga a Roma.
Non si tratta di una scelta simbolica, ma concreta. Una scelta che definisce la credibilità dell’intera architettura di sicurezza europea.
L’Europa deve decidere
La guerra in Ucraina ha reso evidente che la Russia non si accontenta di influenze parziali. Vuole riscrivere le regole, ridefinire le sfere, riportare indietro l’orologio della storia. Continuare a difendere il quadro giuridico del 1997 significa restare imprigionati in un mondo che non esiste più.
La NATO ha il dovere di aggiornare i propri presupposti strategici. L’Atto fondativo del 1997, pur nato con intenti distensivi, è oggi un ostacolo. Va superato con chiarezza, perché come dice il presidente lituano Gitanas Nausėda, «nessun alleato della NATO può essere lasciato nella nebbia della deterrenza condizionata».
L’Europa, se vuole davvero garantire la propria sicurezza, non può più permettersi ambiguità. Deve scegliere la difesa, la deterrenza, la parità di trattamento tra alleati. E deve farlo ora.