L’instabilità che sale dal Nord: la crisi olandese e la nuova fragilità europea

Donatello D'Andrea
04/06/2025
Interessi

L’instabilità politica non è più una prerogativa dei Paesi dell’Europa meridionale. La recente caduta del governo nei Paesi Bassi, guidato da Dick Schoof, e le difficoltà strutturali in GermaniaSvezia segnano un cambio di paradigma nella percezione della solidità politica dell’Europa settentrionale. L’idea di una “eccezionalità nordica” -capace di coniugare pragmatismo amministrativo, tenuta istituzionale e cultura del compromesso -sembra cedere sotto il peso di una transizione globale fatta di polarizzazione politica, sfiducia sistemica e leadership in transizione. Il mito dell’intangibilità di queste democrazie si incrina, mettendo in discussione alcune delle narrazioni fondative del progetto europeo contemporaneo.

La crisi dei partiti tradizionali

Questo scenario non nasce nel vuoto: è figlio di un ciclo che ha visto la fine di leader storici come Angela Merkel e Mark Rutte, la crisi delle grandi coalizioni e la perdita di centralità dei partiti tradizionali. Le nuove leadership, spesso frutto di equilibri precari o di accordi tecnici, non riescono più a rappresentare un perno stabile. L’incapacità di costruire visioni di lungo periodo e la pressione crescente dell’opinione pubblica spingono i governi a una gestione del consenso fragile, dove la reputazione interna e l’affidabilità esterna non sempre convergono. La transizione da una politica della stabilità a una politica della contingenza è ormai sotto gli occhi di tutti.

A questo quadro si aggiunge l’avanzata di opposizioni sovraniste sempre più efficaci nella costruzione di narrazioni semplici e nella valorizzazione del malessere diffuso. In questo contesto, la comunicazione politica non è più uno strumento di governo, ma un’arma d’assalto. E i Paesi che avevano fatto del linguaggio sobrio e del dibattito razionale il loro tratto distintivo, ora si trovano costretti a rincorrere la performatività mediatica di leader capaci di tradurre il disagio in slogan, senza offrire soluzioni di governo.

La fine del mito nordico

Per anni, i Paesi dell’Europa settentrionale sono stati percepiti come modelli di stabilità, governabilità ed efficienza istituzionale. L’Olanda, la Germania e la Svezia hanno incarnato un immaginario politico fondato sulla forza delle istituzioni, sulla prevedibilità dei processi decisionali e sulla coesione interna. Tuttavia, questo quadro è oggi fortemente incrinato: la recente crisi politica olandese, l’instabilità crescente in Germania e le turbolenze istituzionali in Svezia segnalano la fine del mito dell’intangibilità nordica. La politica europea non ha più santuari: anche le democrazie tradizionalmente più solide sono ora attraversate da onde di instabilità, polarizzazione e sfiducia diffusa.

La caduta del governo olandese, a pochi mesi dalla formazione dell’ esecutivo guidato da Dick Schoof, è l’ultimo segnale di un sistema politico ormai incapace di offrire solidità. Le tensioni latenti tra partiti ideologicamente distanti, la crescente pressione delle opposizioni populiste e i conflitti interni su temi chiave come l’immigrazione hanno reso il nuovo governo fragile fin dalla nascita. La prematura fine dell’esecutivo, sostenuto da una coalizione eterogenea, ha posto fine all’illusione che i Paesi Bassi potessero rappresentare un’oasi di continuità nel panorama europeo.

A rafforzare questa impressione, il fatto che la Germania abbia vissuto negli ultimi mesi un passaggio altrettanto delicato: la difficile investitura di Friedrich Merz, leader della CDU, ha mostrato come anche il fu motore d’Europa fatichi oggi a produrre governi dotati di una maggioranza solida e duratura. Il sistema federale tedesco, storicamente sinonimo di affidabilità, si trova a fare i conti con una crescente frammentazione del voto e con il rafforzamento di forze politiche anti-sistema come Alternative für Deutschland (AfD). La mancata fiducia iniziale a Merz e l’instabilità che ne è seguita hanno reso evidente una nuova realtà: la Germania non è più il baluardo di stabilità su cui l’Europa poteva contare.



La Svezia, dal canto suo, ha vissuto un decennio di progressiva erosione del consenso ai partiti tradizionali. L’ascesa dei Democratici Svedesi, partito di estrema destra, ha sconvolto gli equilibri politici e obbligato i governi successivi a compromessi instabili. La legittimazione crescente di discorsi securitari e nazionalisti ha inciso profondamente sulla cultura politica del Paese, minando la coesione che per anni aveva garantito stabilità e capacità di governo. Anche in questo caso, il modello scandinavo è entrato in crisi.

L’incertezza dopo gli anni dei “leader forti”

Un elemento centrale che accomuna queste dinamiche è la fine delle grandi leadership politiche che avevano garantito continuità e solidità per oltre un decennio. L’uscita di scena di Angela Merkel, dopo 16 anni di governo, ha lasciato in Germania un vuoto simbolico e operativo. La sua leadership, basata su pragmatismo, stabilità e capacità di mediazione, aveva assicurato alla Germania un ruolo guida in Europa e una resilienza interna che oggi appare compromessa.

Allo stesso modo, la decisione di Mark Rutte di lasciare la politica dopo 13 anni da primo ministro nei Paesi Bassi ha accelerato un processo di scomposizione dell’assetto politico. Rutte aveva saputo gestire coalizioni eterogenee con abilità tattica, garantendo al suo Paese un equilibrio precario ma funzionale. La sua uscita ha lasciato spazio a leadership meno consolidate e più vulnerabili alle tensioni interne.

La fine di queste leadership ha quindi un significato sistemico: non si tratta solo del ricambio naturale della classe dirigente, ma della perdita di riferimenti simbolici e funzionali in un’epoca segnata da discontinuità, crisi sovrapposte e polarizzazione. In assenza di figure capaci di incarnare una visione e garantire un minimo di coerenza politica, i governi dei Paesi nordici si sono rivelati esposti alla stessa volatilità che per anni avevano osservato altrove.

Il quadro attuale dimostra che nessuna democrazia può ritenersi immune dalla crisi di rappresentanza, dal disincanto dell’elettorato e dall’erosione della fiducia nelle istituzioni. I governi “modellati” attorno a figure forti e credibili sembrano ormai un’eccezione. L’instabilità è diventata la nuova norma, anche nei sistemi politici ritenuti più maturi e performanti. È la fine dell’eccezione nordica: una transizione che merita attenzione e analisi approfondita, perché segna un cambiamento paradigmatico nella lettura della stabilità europea.

La stabilità come illusione democratica: cause e codici della fragilità

La stabilità democratica, per decenni elemento distintivo dei Paesi dell’Europa settentrionale, sta rivelando la propria natura illusoria. L’Olanda, la Germania, la Svezia — sistemi storicamente percepiti come modelli di solidità istituzionale— stanno oggi attraversando una crisi di rappresentanza, polarizzazione politica e instabilità esecutiva che mina alla radice l’idea di un’Europa nordica immune alle turbolenze della politica contemporanea. Ma questa crisi non è soltanto strutturale: è comunicativapercettivanarrativa.

Un primo segnale di questo scollamento si ritrova nella dissoluzione delle narrazioni tradizionali. I grandi partiti di governo non riescono più a raccontare il mondo in modo credibile e coerente. La perdita di riferimento valoriale e identitario, combinata alla complessità delle sfide contemporanee (clima, immigrazione, inflazione, sicurezza), ha frantumato le cornici interpretative con cui le democrazie europee erano solite spiegarsi e legittimarsi. In assenza di questi riferimenti, i cittadini si rivolgono a voci nuove, spesso estreme, capaci di offrire risposte semplici a problemi complessi.

Ed è qui che entra in gioco il ruolo delle opposizioni sovraniste. Le nuove forze antagoniste si impongono non solo per il loro contenuto politico, ma per la forma della loro comunicazione. Utilizzano tecniche retoriche tese alla polarizzazione, fanno leva su una comunicazione istantaneavisceraleipermediale. La loro efficacia risiede nella capacità di incanalare il disagio e trasformarlo in attacco sistemico contro le istituzioni, le élite, il compromesso.

È una politica dell’“anti”: anti-governo, anti-immigrazione, anti-Europa, anti-stabilità.

L’esempio più eclatante si osserva nella Svezia, dove l’ascesa dei Democratici Svedesi ha ristrutturato completamente lo spettro politico, imponendo una ridefinizione delle alleanze e una compressione del dibattito su temi chiave come sicurezza, integrazione e welfare. Similmente, in Germania, l’AfD ha trasformato la retorica politica in una guerra semiotica, in cui ogni dichiarazione pubblica è progettata per ottenere massimo engagement e provocazione. La dimensione comunicativa non è più strumento, ma fine: la performatività ha sostituito la responsabilità.

In questo contesto, anche la razionalità decisionale tradizionalmente associata al Nord Europa è stata corrosa. Le decisioni politiche, specialmente tra le opposizioni, vengono prese non più in base a una valutazione strategica degli interessi collettivi, ma in funzione della visibilità e del clamore che possono generare. La comunicazione diventa azione. Lo slogan sostituisce il programma. La conferenza stampa prende il posto della concertazione. È la vittoria di una comunicazione performante, centrata sull’istantaneità e sulla massimizzazione del consenso a breve termine.



La semplificazione narrativa contribuisce a sua volta all’irresponsabilità crescente. Le opposizioni, pur non essendo al governo, riescono a imporre l’agenda mediatica, dettando i temi, polarizzando il dibattito e costringendo i governi a inseguire. In questo quadro, anche le decisioni più complesse vengono ridotte a dilemmi binari, svuotando il confronto democratico della sua sostanza deliberativa. E più la comunicazione è semplice, più è efficace — ma anche più dannosa sul lungo periodo.

L’esasperazione di questi meccanismi ha prodotto un cambiamento strutturale: la comunicazione delle opposizioni ha assunto caratteristiche da governo ombra, con la differenza che non porta il peso della responsabilità, ma gode di tutti i vantaggi dell’aggressività mediatica. È un paradosso comunicativo: chi ha più potere simbolico è chi ha meno responsabilità effettiva. Questo rovesciamento mina le fondamenta stesse del contratto democratico, perché rompe l’equilibrio tra parola e azione, tra proposta e rendicontazione.

Infine, è necessario osservare come anche il linguaggio istituzionale abbia subito un processo di ibridazione. I partiti di governo, per non perdere contatto con l’elettorato, hanno cominciato a mimare la comunicazione dell’opposizione, accentuando toni, semplificando messaggi, cercando visibilità immediata a scapito della coerenza narrativa. In questo contesto, la frammentazione semantica diventa frammentazione politica. Le parole perdono stabilità, e con esse la politica perde profondità.

La stabilità, in definitiva, non è più un dato. È una costruzione fragile, esposta agli urti di una comunicazione politica diventata permanente stato di campagna elettorale. Comprendere questa dinamica è essenziale per chi vuole analizzare il presente e prevedere il futuro delle democrazie europee: un futuro che si gioca sempre di più nello spazio della comunicazione e sempre meno in quello delle istituzioni.



La fine del “modello nordico” specchio della fase critica della comunicazione istituzionale europea

La crisi di stabilità dei governi nordici non è un’eccezione, ma un sintomo. Un sintomo di una trasformazione profonda del rapporto tra cittadino, potere e narrazione. Il collasso delle tradizionali formule di governo, la perdita di efficacia del linguaggio istituzionale e la frammentazione dell’arena politica raccontano un’Europa che deve reinventarsi. La fine del “modello nordico” ci ricorda che nessuna democrazia è immune dalla fragilità, e che la stabilità è il prodotto di una comunicazione politica efficace, coerente, legittimata.

Non basta più governare: occorre saper rappresentare il governo. Non basta più amministrare: occorre generare senso. La fiducia, oggi, non si eredita ma si conquista ogni giorno, in un contesto di saturazione informativa e competizione narrativa. I governi che non comprendono questa trasformazione rischiano di essere travolti da opposizioni che, pur prive di soluzioni, hanno trovato la formula per occupare lo spazio simbolico del potere.

L’Europa si trova così in una fase critica, dove la capacità di ricostruire narrazioni condivise, di promuovere una comunicazione non solo performativa ma generativa di legittimità, rappresenta la vera sfida democratica. I prossimi anni saranno decisivi per capire se l’instabilità attuale è un passaggio transitorio o un nuovo stato permanente della politica europea. E da questa risposta dipenderà il futuro stesso del progetto europeo.