L’ambiguità rende l’Italia irrilevante

Piercamillo Falasca
18/05/2025
Poteri

C’è un momento in cui il non scegliere diventa di per sé una scelta. E l’Italia ondeggiante, oggi, sembra incamminarsi con passo incerto ma costante verso un ruolo marginale nella grande battaglia per il futuro dell’Europa e dell’Occidente. L’assenza della premier Giorgia Meloni dal vertice della “Coalizione dei Volenterosi”, convocato da Macron e Starmer con la presenza di Zelensky, non è un dettaglio secondario. È la manifestazione plastica di una strategia ambigua, che punta a tenere il piede in due scarpe: con l’Ucraina e con chi, in fondo, lavora contro l’Ucraina.

Meloni ha scelto di non esserci. Ha detto che l’Italia non è disponibile a inviare truppe — come se quel vertice fosse una chiamata alle armi, quando invece si trattava di riaffermare un impegno politico, simbolico e strategico per la difesa dell’ordine europeo. Macron l’ha smentita con un sorriso beffardo: «Peccato, non si parlava di truppe». Ma Meloni, forse, sapeva benissimo di cosa si parlava. Il problema non è Tirana. Il problema è Roma.

Perché la verità è che a frenare l’Italia non è solo un calcolo internazionale, ma un ricatto interno. La premier sa che l’equilibrio della maggioranza si regge su un asse fragile. «Di sicuro Meloni si è chiesta se aderire alla coalizione di Londra e Parigi avrebbe messo a rischio la sua relazione con Salvini», scrive il Corriere della Sera. Tradotto: la Lega, da sempre ambigua nei rapporti con Mosca, avrebbe potuto far cadere il governo. E allora Meloni ha scelto di salvare il governo, non l’onore.

Ma si può davvero governare l’Italia — e contare in Europa — sotto il ricatto implicito di un alleato che gioca una partita geopolitica diversa e ostile agli interessi dell’Occidente libero? Che cerca sponda nei circoli putiniani e nei falchi sovranisti? Che osteggia apertamente l’invio di aiuti militari a Kyiv e flirta con l’idea di un’Europa debole, divisa, impaurita?

Non è solo questione di rapporti internazionali. È questione di coerenza, di credibilità, di visione. Perché non si può dirsi per l’Ucraina e poi ricevere a Roma, con tutti gli onori, un personaggio come George Simion: un estremista romeno con trascorsi filorussi e posizioni anti-europee, esibito come alleato naturale in campagna elettorale. E non si può rivendicare una linea pro-Europa e poi astenersi a Strasburgo su documenti fondamentali della difesa europea, come ha fatto Fratelli d’Italia mentre Forza Italia votava a favore e la Lega si sfilava.

Questo non è equilibrio, ma confusione e ambiguità trasformata in prassi politica: una linea che soddisfa i tatticismi interni e mortifica la collocazione strategica del Paese. Il risultato è che i partner europei più solidi — Parigi, Berlino, Londra, Varsavia e i Paesi baltici — iniziano a guardare all’Italia con diffidenza. Come a un alleato incerto, opaco, poco affidabile.

L’opposizione contribuisce a questa corsa al ribasso, purtroppo. Il Movimento 5 Stelle, che ha flirtato con il pacifismo d’accatto e con l’antiamericanismo più stanco, si oppone oggi al riarmo europeo e alla solidarietà militare, come se bastasse il buon cuore a fermare i missili russi. In Parlamento europeo, M5S e Lega votano quasi sempre allineati sulle questioni di politica estera: due partiti che, seppure su fronti teoricamente opposti, parlano la stessa lingua dell’ambiguità strategica.

È arrivato il momento di rompere questo incantesimo e di dire chiaramente da che parte sta l’Italia. Un Paese che si fa piccolo per paura di litigare con Salvini è un Paese che ha già perso. L’ambiguità, in politica estera come in amore, non dura mai a lungo. Prima o poi, tutti capiscono chi sei davvero. E ti lasciano da solo.