La stretta di Hormuz: tra petrolio, basi USA sotto tiro ed enigma saudita

Dopo l’attacco statunitense in Iran, il Golfo Persico – o Golfo Arabo, come lo chiamano dal lato della penisola arabica – torna il centro del mondo. Non è un’esagerazione: ciò che accade nello Stretto di Hormuz ha un impatto immediato sull’economia globale, sulla sicurezza energetica e sugli equilibri geopolitici più delicati del pianeta.

L’arma a doppio taglio di Teheran
La minaccia iraniana di bloccare lo Stretto di Hormuz è una classica mossa da guerra asimmetrica. Tra il 20 e il 30% del petrolio trasportato via mare transita da quel passaggio: bloccarlo vorrebbe dire provocare un’esplosione dei prezzi e mettere in crisi intere economie. Ma è anche una mossa pericolosa per l’Iran stesso, che danneggerebbe la propria capacità di esportare greggio, perderebbe leva diplomatica e rischierebbe una rappresaglia militare schiacciante. È un’arma che può essere mostrata, agitata, usata in forma intermittente, ma non facilmente impiegata fino in fondo senza conseguenze irreversibili.
Nelle ultime ore, come mostra la seconda immagine sotto, decine di petroliere stanno abbandonando l’area, segnale inequivocabile che l’industria teme una possibile chiusura dello stretto.

Le basi americane nel mirino
Il Golfo è punteggiato di basi statunitensi. Kuwait, Bahrein, Qatar, Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita e Oman ospitano da decenni forze americane, con presenze che vanno dalle decine di consiglieri militari alle vere e proprie installazioni strategiche. Dopo il diretto coinvolgimento dell’aviazione USA nei raid contro obiettivi in Iran, queste basi diventano target legittimi per una possibile ritorsione di Teheran o delle sue milizie proxy. Il rischio maggiore non è tanto un attacco convenzionale, quanto una campagna di azioni asimmetriche: droni, sabotaggi, incursioni cibernetiche, operazioni sotto falsa bandiera. La geografia militare del Golfo, oggi più che mai, è un punto debole dell’architettura di sicurezza americana.

Arabia Saudita, il gioco sottile dell’ambiguità
Molti analisti si sono chiesti quale sarà la risposta dell’Arabia Saudita. Dopo il primo attacco israeliano in Iran, Riyad si era affrettata a condannare pubblicamente l’azione. Alcuni avevano preso sul serio quella condanna, altri l’avevano considerata una dichiarazione di facciata, utile a preservare una certa narrazione pubblica nel mondo arabo. Ma oggi lo scenario è cambiato: non si tratta più di Israele, ma degli Stati Uniti, il partner strategico per eccellenza del Regno.
E qui bisogna essere chiari: la vera scelta dell’Arabia Saudita non è tra sostenere o condannare l’azione americana – bensì tra rendere visibile o invisibile il proprio allineamento. Nessuna monarchia del Golfo, men che meno quella saudita, può permettersi una rottura con Washington. La sicurezza interna, la difesa dello spazio aereo, la protezione dei siti petroliferi e perfino la modernizzazione tecnologica del Paese si reggono su quella partnership.
Il dilemma di Mohammed bin Salman, dunque, è un altro: quale narrativa offrire al mondo arabo e al proprio popolo, e in parallelo quale sostegno discreto assicurare all’alleato statunitense. Lo farà aprendo o chiudendo spazi aerei? Fornendo intelligence? Sostenendo in silenzio un aumento della produzione petrolifera per compensare i contraccolpi sui mercati? Ogni gesto sarà letto, interpretato, usato.
Verso la prossima mossa
Il Medio Oriente è entrato in una fase in cui la deterrenza si esercita meno con le parole e più con i movimenti delle navi e dei droni. Il traffico in uscita dallo Stretto di Hormuz, visibile nella mappa satellitare, parla da solo: l’instabilità è già nei numeri, nel prezzo del barile, nel movimento frenetico delle compagnie petrolifere che cercano porti più sicuri.
La partita non si gioca solo tra Washington e Teheran. Si gioca soprattutto tra Teheran e le capitali del Golfo, e dentro quelle capitali, tra i palazzi del potere e le opinioni pubbliche sempre più agitate. In mezzo, ci sono le basi americane, vulnerabili e strategiche. E al di là del Mediterraneo, c’è un’Europa fragile, i cui tentativi di negoziato con il regime degli ayatollah si sono già infranti.

