La Serbia è in rivolta, il dittatore ha paura

Protesters run from riot police in Belgrade as a Serbian flag waves amid smoke and tension.
Mila Grujović
06/07/2025
Poteri

Belgrado, sabato 28 giugno. Alcuni manifestanti pacifici vengono inseguiti dalla polizia, altri brutalmente picchiati dopo un pomeriggio di proteste non violente.

Quello che è accaduto sabato non è un episodio isolato. Da quel tragico 1° novembre, quando a Novi Sad il crollo della pensilina della stazione ha causato 16 vittime, la Serbia è paralizzata. I giovani sono costantemente in strada a chiedere giustizia, democrazia e una lotta concreta alla corruzione, identificata come la principale causa del degrado dei diritti civili e sociali nel Paese.

Da allora, le scuole pubbliche sono chiuse e le università occupate. I docenti non ricevono più alcuna retribuzione né hanno accesso all’assistenza sanitaria. Il caos regna, ma i cittadini serbi non si arrendono.

Un punto di svolta nelle proteste

Questa manifestazione, però, segna un punto di svolta: non si chiedono più solo i sei punti rivendicati dagli studenti – che vertono su richieste di trasparenza e riforme – ma si pretende l’indizione di elezioni anticipate per porre fine al regime di Aleksandar Vučić.

Il 28 giugno è una data simbolica per la Serbia: è Vidovdan, festa ortodossa che incarna lo spirito di resistenza nazionale. In questo giorno si ricordano eventi cruciali per l’identità serba, come l’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando da parte di Gavrilo Princip e la storica battaglia del Kosovo del 1389.

Vučić teme il crollo del consenso

Vučić, ex ministro dell’informazione sotto il governo di Milošević, ha dichiarato che le elezioni si terranno solo a fine mandato, tra la fine del 2026 e l’inizio del 2027, e difficilmente si discosterà da tale decisione. Il presidente ha paura: con un consenso ai minimi storici, spera di recuperare popolarità grazie all’EXPO del 2027.

Repressione in aumento

Nel frattempo, la repressione si intensifica. La polizia, guidata dal ministro degli Interni Ivica Dačić, ha militarizzato Belgrado. Cittadini e studenti si sono barricati per le strade, e il modello di protesta si diffonde rapidamente in altre città. La risposta delle forze dell’ordine è brutale: solo nell’ultima settimana si contano 75 arresti tra studenti, professori universitari e cittadini comuni, etichettati dal governo come “traditori della patria”, proprio come accadde ai dissidenti del regime di Milošević.

Accanto alla polizia operano gruppi non ufficiali ma strettamente legati al potere di Vučić: picchiatori, ultrà della Stella Rossa e combattenti di MMA, che agiscono con brutalità per soffocare le libertà individuali dei manifestanti pacifici.

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La resistenza dei veterani

Dall’altra parte delle barricate, al fianco di studenti e cittadini, si schierano anche i veterani delle sanguinose guerre degli anni ’90: uomini mandati a combattere contro popoli fratelli, poi dimenticati dallo Stato. Oggi, quegli stessi veterani tornano in piazza, non per combattere un nemico esterno, ma per difendere la dignità e i diritti del proprio popolo.

Le reazioni internazionali

Tutto questo accade alle porte dell’Unione europea. La Commissaria per l’Allargamento, Marta Kos, ha dichiarato di seguire con attenzione gli sviluppi, condannando ogni forma di odio e violenza e ribadendo l’importanza del rispetto dei diritti fondamentali. Tuttavia, molti serbi percepiscono l’UE come distante dal popolo e troppo vicina al governo. Emblematico è il caso del progetto di estrazione del litio “Rio Tinto”, che – se realizzato – avrebbe conseguenze ambientali devastanti sul territorio.

Una voce che chiede giustizia

Dietro le barricate e le cariche della polizia, c’è una popolazione che lotta ogni giorno per riconquistare la propria voce, in un contesto in cui la repressione è la risposta alla richiesta di diritti. Eppure, di tutto questo si parla fin troppo poco.

L’Occidente non può restare indifferente

E l’Occidente in tutto ciò non può restare indifferente. Anche se si tratta di una battaglia interna a uno Stato sovrano, abbiamo il dovere morale di fare ciò che è nelle nostre possibilità: informare, denunciare, sostenere chi lotta per la libertà. Perché la democrazia non è mai solo una questione nazionale: è un bene comune, fragile e prezioso, che riguarda tutti noi, cittadini europei.