La retorica del martirio di Hamas e l’indifferenza di Netanyahu si tengono insieme

Partiamo da un presupposto: noi esprimiamo la nostra piena solidarietà al popolo di Gaza, vittima di una crisi umanitaria di proporzioni drammatiche. Le limitazioni imposte dal governo israeliano guidato da Benjamin Netanyahu, che continua a ostacolare l’accesso agli aiuti umanitari, rappresentano una violazione grave del diritto internazionale e dei più elementari principi di umanità. Ma proprio perché crediamo nel valore universale della vita e della dignità di ogni essere umano, riteniamo doveroso denunciare anche il linguaggio e le scelte di chi, come Hamas, sembra voler trasformare la sofferenza dei civili in un elemento permanente della propria strategia politica.
Le due cose non si escludono: si tengono insieme, nella stessa bussola morale che rifiuta l’indifferenza e la strumentalizzazione.
In questo contesto di profonda sofferenza e smarrimento, le recenti dichiarazioni di Sami Abu Zuhri, dirigente di Hamas in esilio, hanno riaperto una ferita profonda nel cuore di Gaza. “I morti saranno sostituiti dalle nascite”, ha affermato in una recente intervista televisiva, aggiungendo che “i numeri in guerra sono irrilevanti” perché “le nostre donne daranno alla luce molti più martiri”. Parole che hanno scosso una popolazione già stremata da mesi di bombardamenti, fame, distruzione e lutti.
Non si tratta solo di una frase infelice: è l’espressione di una visione che riduce la vita e la morte a meri strumenti di propaganda. E proprio da Gaza è arrivata la risposta più netta: sui social media si è levato un coro di voci che rifiuta questa logica. “Siamo solo carburante per le loro guerre”, scrive qualcuno. È una protesta che rompe il silenzio, e che andrebbe ascoltata con attenzione.
Quando la morte diventa linguaggio politico
La retorica del martirio non è una novità nei discorsi di Hamas, ma in un momento come questo, le parole di Abu Zuhri appaiono particolarmente distanti dal vissuto delle persone. Di fronte a oltre 35.000 morti (secondo fonti locali), a una crisi umanitaria che ha messo in ginocchio un’intera società, parlare di sostituzione dei cadaveri con nuove nascite rischia di disumanizzare sia i vivi che i morti.
Non si tratta solo di una questione etica. È una questione politica: perché più la leadership insiste su un linguaggio di sacrificio perpetuo, più si allontana dalla realtà della propria gente. La vita umana, ridotta a funzione statistica, perde la sua dignità irripetibile. E questo, molti a Gaza lo stanno dicendo chiaramente.
La distanza della leadership e il prezzo dei civili
Abu Zuhri non vive a Gaza. Le sue parole arrivano da lontano, da un’esistenza al riparo dalle bombe e dalla fame. Ed è anche questa distanza fisica che amplifica il senso di frattura tra chi guida e chi sopporta le conseguenze. A Gaza si lotta per sopravvivere, per trovare acqua, cure, elettricità. Chi parla di martiri futuri da un luogo sicuro non sembra condividere il dolore quotidiano della propria gente.
Non è una polemica nuova, ma oggi è più visibile che mai. La leadership di Hamas appare sempre più arroccata in un linguaggio che non corrisponde più all’urgenza umana di chi ha perso figli, case, speranze. Quando la sopravvivenza diventa l’unico orizzonte, ogni discorso che giustifica la morte suona come un tradimento.
La nascita come arma: la retorica della guerra demografica
Il riferimento di Abu Zuhri ai “50.000 bambini nati durante la guerra” apre un’altra questione delicata. L’idea che la riproduzione possa essere usata come forma di resistenza è presente in molte narrazioni ideologiche, non solo islamiste. Ma quando la natalità viene caricata di significati bellici, a perdere sono le donne, i bambini, le famiglie. La nascita diventa un’arma, non più un diritto.
Questo tipo di retorica sposta l’attenzione dalla persona al popolo, dall’affetto alla funzione. La maternità è trasformata in un atto militante, la famiglia in un ingranaggio di un conflitto permanente. È una visione che priva le nuove generazioni del diritto più fondamentale: quello di nascere per vivere, non per combattere.
Le voci che chiedono dignità
La rabbia che emerge da Gaza è la dimostrazione che esiste una parte della società palestinese che non si riconosce nella narrazione ufficiale di Hamas. Una parte che desidera pace, dignità, futuro. Ed è proprio questa voce, spesso soffocata da censura interna e indifferenza esterna, che l’Europa dovrebbe sforzarsi di ascoltare.
Difendere i diritti dei palestinesi non può significare ignorare le responsabilità della loro stessa leadership. Allo stesso tempo, criticare Hamas non deve diventare una scusa per giustificare ogni scelta del governo israeliano. Serve una visione più equilibrata, capace di distinguere, comprendere, costruire.
I numeri contano, perché contano le persone
Abu Zuhri ha detto che “i numeri non contano”. Ma non è così. I numeri contano eccome: non come fredde statistiche, ma come volti, storie, vite interrotte. Ogni cifra rappresenta un’esistenza che meritava di essere vissuta. E ogni nuova nascita merita un orizzonte di pace, non un destino segnato dalla guerra.
Rimettere al centro la persona è il primo passo per uscire da una narrazione che strumentalizza la morte e banalizza la vita. È il punto di partenza per ricostruire una cultura politica che non chieda sacrifici, ma offra futuro. E forse, oggi più che mai, è questo il coraggio di cui abbiamo bisogno: chiamare ogni vita per nome, e restituirle dignità.
