La Danimarca molla Microsoft e mira alla sovranità tecnologica. Ma con quali tecnologie?

La Danimarca compie dei primi, graduali passi di un piano nazionale di affrancamento dalle tecnologie statunitensi, in una transizione avvertita come sempre più urgente da Copenhagen, alla luce delle crescenti tensioni diplomatiche con l’amministrazione Trump per il controllo della Groenlandia. Proprio la settimana scorsa, infatti, le dichiarazioni al Congresso del Segretario alla Difesa americano Pete Hegseth, secondo cui sarebbe già pronto un piano di invasione dell’isola controllata dai danesi, hanno segnato un nuovo capitolo nel raffreddamento delle relazioni con la Casa Bianca.
Di tutta risposta, il governo del Paese scandinavo ha reso nota l’intenzione di avviare la dismissione dai propri computer, cominciando emblematicamente dal Ministero della Digitalizzazione, del sistema operativo Windows, notoriamente di proprietà di Microsoft, in favore di Linux – open source e, per questo, customizzabile e immune alla trasmissione di dati sensibili in terra americana o di ban alla fornitura, come avviene in Cina per alcuni prodotti di Nvidia. L’abbandono dell’ambiente targato Bill Gates implica anche la rinuncia a popolari pacchetti software come Office, in favore di surrogati quali Libre Office; un’operazione un tempo impensabile, resa oggi attuabile grazie all’ampia reperibilità di prodotti aperti e perfettamente sovrapponibili per caratteristiche alle più blasonate soluzioni commerciali, ma i cui sviluppatori rendono interamente disponibile il codice sorgente.
Sovranità tecnologica… ma con quali tecnologie?
A illustrare, con candore, le ragioni del cambio di paradigma informatico sono le parole di Morten Bodskov, Ministro degli Affari danese: “se ci limitiamo a utilizzare le loro soluzioni, la nostra società diventa estremamente vulnerabile in un mondo che sta cambiando sotto la pressione delle grandi potenze, delle tensioni geopolitiche e della corsa alla tecnologia. Ecco perché dobbiamo sviluppare le nostre soluzioni.” Dichiarazioni sottese a una strategia ampiamente condivisibile, negli intenti; tuttavia, nei risvolti pratici, si può definire lungimirante o meramente illusoria?
“Software is king”: un’espressione particolarmente in voga anni fa, utile a rimarcare il predominio della buona programmazione su tutto ciò che, al contrario, è hardware, ossia tangibile, dotato di corporeità: dispositivi, componenti, perfino infrastrutture fisiche di rete. Oggi il software è ancora preponderante, ma non quello di tipo direttamente rimpiazzabile. Al contrario, la rivoluzione dell’intelligenza artificiale ha dimostrato, in un lasso di tempo sorprendentemente breve, che a regnare sovrana oggi è l’integrazione tra modelli di AI avanzati, che sono sempre proprietari e i cui sviluppo e addestramento richiedono risorse ingenti e know-how difficilmente replicabile, e la potenza bruta delle infrastrutture hardware necessarie ad alimentarli. La geografia e, ancor meglio, la geopolitica, hanno sempre giocato un ruolo cardine nelle tecnologie informatiche, ma l’intelligenza artificiale è giunta come un ciclone a frantumare qualsiasi illusione, benevola ma velleitaria, di poter affrancare il software dagli equilibri delle relazioni internazionali, dalla supply chain di materie prime e dalla ragion di Stato.
Più che il software, dunque, oggi “service is king”. Inseguire, in siffatto contesto, la chimera della sovranità tecnologica, seppure per la giusta causa della sicurezza nazionale e per la certezza di non subire ban dagli esiti catastrofici, equivale a una condanna certa all’isolamento, all’irrilevanza e all’obsolescenza, con relativa perdita di competitività e capacità di innovazione. Microsoft, infatti, è solo la punta dell’iceberg, tra l’altro in una partita che ormai si gioca su altri campi rispetto a quelli tradizionalmente intesi. In un piano coerente di affrancamento dai colossi statunitensi, occorre rinunciare anche ai servizi e, soprattutto, alle piattaforme di AI di OpenAI, Anthropic, Google, Meta. Parimenti, oltre a Windows, occorrerebbe mettere al varo anche Mac e, soprattutto, gli unici due sistemi operativi moderni, stabili ed efficienti di mobile computing: Android, soggetto a controlli sempre più stringenti da parte di Google, e iOS, sviluppato da Apple per iPhone. Tertium non datur.
Senza data center, modelli di AI e terre rare si combatte contro i mulini a vento
Alla Danimarca, insomma, sfugge un concetto lapalissiano: per ambire alla sovranità tecnologica, bisognerebbe prima disporre delle tecnologie. Allo Stato attuale, al Paese scandinavo, così come a gran parte del pianeta, mancano sia il know-how che le infrastrutture per tentare quella che oggi appare come nient’altro che una lotta contro i mulini a vento. I numeri della geopolitica dei data center, imprescindibili per l’elaborazione dei dati necessari all’AI, e della supply chain di materie prime critiche per la produzione di componenti hardware, infatti, restituiscono un ritratto impietoso della schiacciante egemonia detenuta su scala globale rispettivamente da Stati Uniti e Cina, per netto distacco su qualsiasi altro player. Gli Stati Uniti, infatti, ospitano oltre 5300 data center sul territorio nazionale. Germania e Regno Uniti, seconde pressoché a pari merito, ne hanno poco più di 500: nemmeno un decimo. Di pari tenore la supremazia cinese in fatto di materie prime critiche e terre rare, di cui ne produce i due terzi del totale globale e detiene anche il primato per riserve accertate nel sottosuolo. Inoltre, come fa notare Politico, ha sede sul suolo americano il 73% delle trenta più grandi aziende al mondo nel settore dell’high tech. Di contro, negli ultimi vent’anni, l’Europa non ha dato i natali a nemmeno un’azienda valutata almeno un triliardo di dollari, mentre Gli Stati Uniti ne hanno create nove.
Sia intesi, senza possibilità di cadere in equivoco: sulla questione della Groenlandia, la Danimarca, e quindi tutta l’Unione Europea, subiscono inaccettabili minacce di invasione militare da parte di quello che, sulla carta, sarebbe ancora il loro principale e più antico alleato. Per scongiurare escalation irrimediabili, come sempre, la via maestra è quella, seppur lunga e tortuosa, della diplomazia, evitando di cadere in facili provocazioni, prendendo tempo e sperando nella distrazione procurata a Trump dal nuovo e prioritario fronte di guerra apertosi in Iran. Stringere i denti, insomma, in attesa di tempi meno folli.