Israele vs Iran. La ridefinizione dell’equilibrio mediorientale e la nuova geopolitica del contenimento

Donatello D'Andrea
16/06/2025
Frontiere

La notte tra il 12 e il 13 giugno ha segnato una svolta strutturale nelle relazioni tra Israele e Iran. L’operazione “Rising Lion” ha colpito con precisione chirurgica infrastrutture cruciali: siti nucleari a Natanz e Tabriz, sistemi di difesa aerea e figure centrali dell’apparato scientifico e militare iraniano — tra cui Salami, Bagheri, Tehranchi e Abbasi. Oltre alla devastazione materiale immediata, l’attacco ha rivelato una fragilità strutturale maturata in anni di sanzioni, fallimenti difensivi e incapacità organizzativa: l’Iran si è mostrato vulnerabile, esposto e impreparato. Non si è trattato di un’escalation isolata, bensì di un momento di frattura che ridefinisce la deterrenza regionale, ricalibrando l’equilibrio geopolitico e narrativo su scala globale.

Un colpo (definitivo) alla testa del serpente

Israele ha messo in campo una combinazione sincronizzata di attacchi cinetici e guerra ibrida: la degradazione delle difese iraniane è avvenuta con droni invisibili, cyber-attacchi paralleli e bombardamenti aerei mirati, accompagnati da una narrazione d’emergenza che ha ridotto la finestra di condanna diplomatica. L’effetto è duplice: da un lato si afferma l’efficacia della deterrenza preventiva, e dall’altro si impone una velocizzazione dei tempi strategici in un’area tradizionalmente strutturata in logiche dilazionate.

Parallelamente, la comunicazione strategica israeliana ha ribadito un nuovo paradigma: la minaccia nucleare, ormai percepita come imminente, giustificava un intervento non più procrastinabile. Il frame scelto – inevitabilità, urgenza, legittimità difensiva – ha ridotto i vincoli legali internazionali, polarizzando l’opinione pubblica mondiale e guadagnando silenzi o giudizi tiepidi da parte di attori chiave come USA, UE e Golfo.

La capacità di Israele di colpire il cuore dell’apparato iraniano con precisione e limitati danni collaterali ha comportato uno shock operativo e psicologico per Teheran. L’operazione ha trasformato un presunto arsenale intoccabile in un obiettivo colpibile, compromettendo la percezione di invulnerabilità del regime iraniano.

L’Iran, ferito nel suo punto più sensibile, deve ora gestire una doppia crisi: il logoramento delle proprie capacità operative e la delegittimazione domestica. Un regime che si è sempre presentato come difensore della sovranità nazionale si trova ora di fronte all’imprevista debolezza delle proprie difese e alla crescente frattura tra élite e opinione pubblica, in particolare quella più giovane e urbana.

In questo quadro, la deterrenza nucleare – che avrebbe dovuto funzionare da elemento dissuasivo – è risultata obsoleta. Non basta avere bombe potenziali: serve dimostrarne la capacità d’impiego. Israele lo ha fatto, Israele ha invertito il paradigma. E ora l’Iran si trova a dover rispondere, in uno scenario dove ognuno gioca con tempi, risorse e narrazioni propri.

Geopolitica di mezzo: equilibri in trasformazione

L’intelligence israeliana ha mostrato capacità superiori su tre fronti: tecnologia autonoma (droni stealth), cyber-sabotaggio paragonabile a Stuxnet 2.0 e targeting chirurgico su leadership e infrastrutture. L’infiltrazione di droni nello spazio aereo iraniano ha superato barriere difensive considerate ancora operative. I sistemi anti-aerei iraniani, pur numerosi, si sono dimostrati inefficaci, con lacune di coordinamento, comando e condivisione d’intelligence con l’esercito regolare. Tra l’altro come dimostra la pubblicazione di alcuni video, il Mossad ha giocato un ruolo più strategico di quello che si possa pensare.

Dietro l’operazione “Leone Nascente”, poche decine di agenti d’élite dei servizi segreti, si sono mossi in modo chirurgico, orchestrando una serie di attacchi simultanei volti a neutralizzare le difese iraniane. Il loro obiettivo primario? Esporre le vulnerabilità della Repubblica Islamica e dimostrare le capacità di penetrazione dell’intelligence israeliana — prima ancora che i caccia stealth scendessero in picchiata attraverso lo spazio aereo iraniano. Una volta aperta la breccia, le armi di precisione hanno colpito i siti nucleari e missilistici, eliminando anche figure apicali del regime.

All’alba, con il dispositivo operativo dell’Operazione Am Kelavi — letteralmente “Leone Nascente” — queste unità d’assalto hanno lanciato droni kamikaze su obiettivi critici, confermando la presenza di cellule del Mossad dislocate in profondità sul territorio iraniano. Meno visibili degli aerei, più letali sul breve raggio.

Mentre gli aerei da combattimento si avvicinavano, i commando attivavano dispositivi elettronici preposizionati, schierati settimane prima con missioni clandestine ad alto rischio. Batterie antiaeree mobili, sistemi radar, e mezzi di guerra elettronica — tutto disattivato secondo manuale per garantire la corrente libertà operativa dei bombardieri israeliani. A seguire, centinaia di missili a guida di precisione hanno colpito simultaneamente, su bersagli accuratamente selezionati.

Secondo fonti di Tel Aviv, l’operazione è stata ideata e condotta in stretta sinergia tra il Mossad e l’Aman, il servizio di intelligence militare. Una partnership che ha unito capacità strategica, intelligence tattica e proiezione operativa, nel cuore dell’Iran.



Questo ha generato due effetti distinti: materiale – la perdita di infrastrutture e figure chiave – e psicologico – la delegittimazione della leadership iraniana e la vulnerabilità di un intero sistema. Colpire Salami e Bagheri ha indebolito non solo la catena di comando, ma anche la narrazione di sicurezza nazionale basata sull’efficienza militare dei Pasdaran. L’intelligence israeliana ha smascherato una rete di vulnerabilità che le élite iraniane consideravano intoccabile.

Il concetto di resilienza strategica in Iran appare oggi paradossale: un regime autoritario e militarmente imponente, ma incapace di garantire la protezione dei suoi vertici, specialmente quelli scientifici, fondamentali per il programma nucleare. La sospensione di esercitazioni, l’uso di bunker mal difesi, e la mancanza di evacuazione preventiva dimostrano una crisi di sistema: un apparato che teme l’attacco ma non sa difendersi.

Israele ha sfruttato questa disorganizzazione anche a livello narrativo. Il frame scelto – “minaccia imminente” – è stato supportato da una strategia comunicativa simultanea: attacco immediato, comunicazione in diretta (Netanyahu da Tel Aviv), spostamento dell’agenda internazionale verso l’inevitabilità dell’azione difensiva israeliana.

fonte: Le GrandContinent.eu

Repubblica islamica nel caos: l’inizio della fine?

Al contrario, la risposta iraniana è apparsa frammentata. Le dichiarazioni aggressive – metteremo in ginocchio il vile regime sionista – hanno cercato di canalizzare la rabbia interna, ma erano prive di coerenza strutturale. Non sono state accompagnate da un piano operativo credibile. Le poche intercettazioni di droni, gli attacchi radar sporadici e l’auto-esclusione diplomatica rivelano un regime ripiegato sulla resistenza tattica.

Anche all’interno dell’Iran emergono divisioni evidenti. Le pressioni delle sanzioni internazionali, combinate con le proteste popolari, rendono la narrazione ufficiale di unità nazionale sempre meno sostenibile. Le fragilità dell’opinione pubblica urbana, in particolare tra i giovani, minano la guerra narrativa iraniana, che rischia di infrangersi su un muro di risentimento sociale.

Il concetto di logoramento strategico si impone come elemento chiave: Israele mantiene l’iniziativa, ostacola la riorganizzazione iraniana, blocca la ripresa del programma nucleare e intacca la rappresentazione di sé come potenza invulnerabile. Il risultato è un teatro operativo asimmetrico, dove il conflitto non cessa, ma si trasforma e resta sotto controllo israeliano.

In risposta, l’Iran ha lanciato oltre 150 missili balistici contro Israele, nel quadro dell’operazione “True Promise III” – una ritorsione simbolica coerente con la narrativa reiterata dalla Guida suprema Ali Khamenei. Nonostante l’elevata capacità difensiva israeliana (Iron Dome, David’s Sling, Arrow), la massa simultanea dell’attacco ha evidenziato i limiti intrinseci di ogni scudo balistico. Diversi vettori hanno raggiunto i propri obiettivi, colpendo un grattacielo di 32 piani a Tel Aviv e il quartiere di Ramat Man, con almeno due morti e decine di feriti.

Dal punto di vista strategico, l’attacco su aree urbane mostra una asimmetria nei campi di battaglia: Israele ha colpito obiettivi militari e infrastrutturali, l’Iran ha reagito su target civili. Una dinamica attesa: chi compie un attacco preventivo mette in conto una ritorsione non selettiva. Come riconosciuto dagli stessi comandi militari israeliani, la risposta iraniana era prevista e inserita nei costi strategici dell’operazione.

A livello dottrinario, questa risposta – per quanto controversa – rientra nelle variabili previste del piano israeliano. L’eccessiva fiducia nell’invulnerabilità della difesa aerea ha generato una sottovalutazione dei rischi legati alla saturazione missilistica. In sostanza, ogni strategia trasformativa implica l’accettazione del rischio sistemico: l’idea di sicurezza assoluta è più un costrutto retorico che una realtà operativa.

Tuttavia, l’operazione iraniana rivela anche una ambivalenza strutturale: mentre da un lato si afferma la deterrenza esterna, dall’altro emergono le fragilità interne. Le difese sono state compromesse, le infrastrutture civili danneggiate, e la capacità del regime di garantire sicurezza alla popolazione appare seriamente indebolita. Nelle prossime fasi, la leadership iraniana dovrà equilibrare la logica della rappresaglia con una strategia calibrata di contenimento, tenendo conto delle pressioni interne e dei rischi di destabilizzazione politica legati a un’escalation fuori controllo.

La guerra senza guerra: scenari possibili e impatti sui meccanismi regionali

Nonostante la risposta iraniana con l’operazione “True Promise III”, l’azione “Rising Lion” ha inaugurato una nuova fase di conflitto ibrido, in cui la guerra assume forme frammentate, distribuite su più teatri e modalità. Si configura un attrito multipolare a bassa intensità che coinvolge Hezbollah, milizie irachene e siriane, e Houthi, con repliche calibrate ma simultanee su diversi fronti.

Il rischio più tangibile resta la regionalizzazione silente: azioni sotto-strategiche, apparentemente scollegate, che accrescono la pressione senza determinare un’escalation aperta. Si delinea una guerra ibrida composta da attacchi sporadici, cyber-sabotaggi su infrastrutture navali e commerciali, e una lentezza deliberata nel ritmo operativo, volta a mantenere il conflitto sotto la soglia convenzionale.

Lo Stretto di Hormuz, già epicentro delle tensioni nel 2019, riacquista centralità strategica. Un’interruzione anche temporanea del traffico petrolifero creerebbe un effetto domino economico, offrendo ai mediatori del Golfo una giustificazione per intervenire come attori di stabilizzazione. Le implicazioni sono doppie: pressione indiretta sull’Iran e stress-test sulla reattività di UE e Stati Uniti in ambito navale e logistico.

Le missioni navali europeeEMASoH ed EUNAVFOR Aspides – assumono una funzione operativa reale: da semplici strumenti di deterrenza simbolica a pilastri della credibilità geopolitica di Bruxelles. Se non vi sarà partecipazione concreta accanto alle flotte regionali, la narrazione europea di protezione commerciale e stabilità strategica rischia di crollare.

Nel prossimo futuro, le milizie proxy potrebbero intensificare azioni asimmetriche: attacchi a oleodotti, sabotaggi energetici, e offensive cyber su banche, reti di comunicazione, e infrastrutture critiche. Il conflitto si espande così in spazi ibridi: aerei, navali, e digitali, esigendo risposte multi-dominio.

In questo contesto, la Turchia può giocare un ruolo da facilitatore strategico, promuovendo un corridoio diplomatico tra Golfo e UE per contenere l’escalation. La sua credibilità geopolitica dipenderà dalla coerenza tra la retorica sunnita-istituzionale e la pratica diplomatica concreta.

Il futuro si gioca su una biforcazione strategica: l’Iran opterà per una ristrutturazione interna, cercando di neutralizzare le fazioni belliciste, oppure scivolerà in una escalation disordinata alimentata dalla mobilitazione delle milizie regionali. Entrambi i percorsi pongono rischi diretti alla sicurezza regionale, esacerbando la frattura tra costo politico e costo militare dell’attuale confronto.



Altri attori regionali: rivalità, alleanze e timori strategici

Il conflitto Israele–Iran si inserisce in una partita regionale ben più ampia, in cui Turchia, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Qatar giocano ruoli strategici, guidati da rivalità storiche sciita-sunnita e ambizioni geopolitiche divergenti.

La Turchia, guidata da Erdoğan, ha condannato l’attacco come “banditry, lawless”. Questa postura assertiva rafforza la sua immagine presso le opinioni pubbliche sunnite, pur evitando un coinvolgimento diretto. Ankara si propone come mediatrice di riferimento, sfruttando il vuoto lasciato dal disimpegno europeo, ma le tensioni con Israele – già alte dopo la crisi di Gaza – rischiano di riaccendere la competizione per l’influenza sulla Siria post-Assad. Il conflitto, quindi, è al tempo stesso narrativo e geopolitico.

Arabia Saudita, Emirati e Qatar, dopo la distensione tra Riad e Teheran (2023), cercano una mediazione pragmatica. Il vertice UE-Golfo di ottobre 2024 aveva delineato una cooperazione energetica e marittima, ma l’attuale crisi spinge queste capitali a evitare una regionalizzazione militarizzata che metterebbe a rischio rotte energetiche e infrastrutture critiche, centrali per la sicurezza energetica europea.

La Giordania, con capacità militari limitate, assume un ruolo di cerniera difensiva: l’intercettazione di droni nella notte dell’attacco segnala l’urgenza di controllo territoriale e stabilità interna. Amman resta un attore di contenimento, bilanciando la pressione su Teheran e i freni verso Tel Aviv.

Nei Paesi arabi emerge un dualismo latente: da un lato, crescono legami riservati con Israele, specialmente in ambito intelligence e sicurezza; dall’altro, il timore è che un Israele indebolito – sotto attacco – possa rafforzare la sua narrativa anti-iraniana, catalizzando un’alleanza arabo-israeliana destabilizzante per equilibri già fragili.

Il conflitto evidenzia una competizione inter-araba: Riyad e Abu Dhabi rafforzano la loro presenza in Siria e Yemen per proteggere interessi economici e strategici, mentre il Qatar, storicamente più vicino a Teheran, promuove mediazioni rapide, anche tramite canali informali che coinvolgono Ankara.

In questo scenario, il messaggio strategico israeliano, trasmesso tramite l’operazione “Rising Lion”, si estende anche verso il mondo arabo: Israele è in grado di colpire obiettivi iraniani senza il permesso di Washington, contando su un tacito consenso arabo, e mettendo gli alleati regionali di fronte ai costi della passività strategica.

Il ruolo degli USA di Trump

L’attacco coincide con la vigilia del sesto round di colloqui USA–Iran a Muscat. Secondo Reuters e The Guardian, Washington era stata preventivamente informata, pur mantenendo una non partecipazione operativa ufficiale. Trump ha rilanciato il proprio approccio di deniability strategica, affermando: “Iran must make a deal… before there is nothing left”.

Il tempismo suggerisce una coordinazione tattica: impedire un accordo diplomatico USA–Iran, spostando il baricentro verso l’hard power e lasciando Israele libero di agire. Ne deriva una frattura fra la fazione del soft power (in USA e UE) e quella più incline all’opzione militare preventiva.

Politicamente, Trump sfrutta entrambi i fronti: elogia la forza israeliana – “I always knew the date” – e si propone come garante di una via diplomatica se Teheran dovesse cedere. Un mix di deterrenza simbolica e bluff operativo, pensato per mantenere un’opzione di escalation graduale senza un coinvolgimento diretto, ma con capacità di supporto in caso di intensificazione.

La dichiarazione di Trump – “non sapevo tutto, ma sapevo abbastanza” – sintetizza la sua strategia: ritiro formale, ma presenza retorica. Gli Stati Uniti, così, si tengono fuori dal conflitto, mantenendo però un asset geopolitico in chiave di governance internazionale.

Rising Lion” rappresenta l’inizio di una nuova fase del conflitto mediorientale, ridefinita da deterrenza preventiva e guerra asimmetrica. Israele ha agito con tempismo: ha colpito prima, decapitato la catena di comando iraniana, e mantenuto un clima di alta tensione utile a consolidare la sua posizione strategica.

L’Iran si trova ora a un bivio strategico: optare per una resilient reconfiguration – concentrando le forze su protezione interna e risposte asimmetriche – oppure avviare una guerra logorante, frammentata e territorialmente diffusa, con il rischio di una regionalizzazione automatica del conflitto. Una risposta calibrata potrebbe contenere l’escalation, mentre un ripiegamento passivo rischia di generare un vuoto operativo permanente, alimentando un conflitto disordinato e non governabile.

Parlare oggi di conflitto globale imminente appare eccessivo: Mosca e Pechino mantengono posizioni formali e prudenti, mentre i principali Paesi sunniti adottano un approccio pragmatico, distanziandosi dalla narrazione di uno scontro ideologico frontale.

Lo scenario operativo sembra destinato a rimanere circoscritto, centrato su confronti aerei e attacchi mirati, piuttosto che su operazioni terrestri. La presenza navale USA nel Mediterraneo funge da scudo antiaereo più che da preludio a un coinvolgimento diretto.

Il rischio strategico a lungo termine resta legato allo sviluppo nucleare iraniano e alla potenziale acquisizione di sistemi di lancio a lungo raggio – una minaccia che supera la crisi attuale.

Il nostro ruolo (politico e mediatico) nel Medio Oriente in fiamme

La chiave di volta non è nel conflitto armato, ma nella narrazione, nella capacità organizzativa e nel controllo delle infrastrutture strategiche. Un’architettura diplomatica costruita da Paesi del Golfo e Turchia, con l’appoggio di un’UE proattiva, potrebbe offrire una cornice di stabilità. Solo una strategia condivisa potrà sostituire la logica emergenziale con un equilibrio strutturale e duraturo.

In questo quadro, si consolida anche la nuova geopolitica del contenimento israeliana: un approccio fondato non solo sulla neutralizzazione preventiva delle minacce, ma anche sulla creazione di una cintura di sicurezza narrativa, diplomatica e tecnologica capace di isolare l’Iran e contenerne l’influenza su più livelli. Israele non si limita a colpire; struttura un perimetro regionale in cui deterrenza, credibilità operativa e alleanze tattiche si fondono in un sistema di gestione del rischio strategico a geometria variabile.

Per l’Europa, la sfida è duplice e interconnessa: da un lato, deve presidiare materialmente le rotte energetiche e marittime del Golfo, dimostrando capacità logistica e deterrenza attiva; dall’altro, è chiamata a rompere il silenzio strategico, elaborando una narrativa diplomatica coerente, capace di superare la cronica inerzia delle istituzioni comunitarie e proporre soluzioni regionali strutturate.

Senza una cornice narrativa e politica condivisa, il conflitto rimarrà una sequenza frammentata di atti disordinati, destinata a logorare gli attori coinvolti e a minare l’ordine regionale. Costruire un nuovo equilibrio sostenibile, fondato su una strategia comune e su infrastrutture di contenimento stabili, è l’unica risposta possibile a un Medio Oriente che cambia — troppo in fretta per chi resta a guardare.