Israele attacca l’Iran: per l’Europa è un guaio, con qualche consolazione

Nelle prime ore del 13 giugno 2025, le forze israeliane hanno intrapreso un’azione militare su larga scala contro obiettivi situati all’interno del territorio iraniano. Questo attacco, denominato “Operazione Leone che Sorge” (in omaggio alla profezia pronunciata di Giacobbe nel libro della Genesi, ma anche al simbolo tradizionale della Persia preislamica), ha visto il dispiegamento di oltre duecento caccia dell’aviazione israeliana, che hanno preso di mira le installazioni nucleari iraniane, il programma missilistico balistico iraniano e i principali comandanti dell’esercito regolare e dei Pasdaran della Repubblica Islamica.
L’attacco ha colpito gli impianti di arricchimento dell’uranio di Natanz e Arak, così come i reattori ad acqua pesante di Khandab e il principale sito missilistico di Khoramabad.
Ha causato la morte del capo delle forze armate iraniane, del capo dei Pasdaran e dei più importanti scienziati iraniani coinvolti nel programma di sviluppo nucleare. I siti missilistici di Khoramabad, nonché i comandi delle guardie rivoluzionarie situati a Karaj, Qom e nella stessa Teheran sono stati completamente distrutti.
I danni alle infrastrutture nucleari sono ancora in corso di valutazione, tuttavia, secondo alcuni servizi di intelligence occidentali, l’attacco ha inferto un colpo mortale alla capacità dell’Iran di riprendere il suo programma nucleare prima di alcuni anni.
È risaputo che Israele dispone del più avanzato sistema antiaereo del mondo (l’Iron Dome) e dell’unica arma antiaerea al mondo ad energia diretta, il laser Iron Beam. Utilizzando questi sistemi e le più avanzate contromisure elettroniche del mondo, gli aerei israeliani hanno potuto muoversi impunemente nel cielo dell’Iran, senza che le forze della difesa aerea iraniana abbiano potuto tentare di abbatterli.
Vola il petrolio, trema l’Ucraina
L’attacco israeliano all’Iran ha avuto un impatto immediato con l’aumento del 15% del prezzo del petrolio, il quale ha raggiunto il record di 76 dollari al barile: il più massiccio aumento in un solo giorno che si sia visto dal momento in cui l’Ucraina è stata invasa su vasta scala.
Per l’Ucraina, in lotta per la sua sopravvivenza, l’aumento dei prezzi del petrolio comporta conseguenze gravi. In primo luogo, l’Ucraina dipende fortemente dagli aiuti internazionali per sostenere la sua economia e finanziare lo sforzo bellico contro la Russia: con l’aumento dei prezzi del petrolio, i costi per trasportare gli aiuti umanitari e militari in Ucraina crescono e i bilanci degli stati europei si assottigliano, rendendo più difficile per le organizzazioni internazionali e i governi fornire il supporto necessario.
Inoltre, l’aumento dei prezzi dell’energia influisce sul bilancio energetico dell’Ucraina, che è a sua volta un’importatrice netta di petrolio e gas, e che soffre già di un’inflazione preoccupante (15,8%) nonché dei primi default su alcuni debiti con l’estero (circa 600 milioni di euro).
Ma soprattutto l’impennata del prezzo del petrolio è un sollievo per il Cremlino, che, in questa stagione di scarsi incassi petroliferi dovuti alle scelte dei sauditi e alle convulsioni commerciali di Trump, stava accumulando un buco di bilancio di oltre 5 miliardi al mese: un’emorragia insostenibile per un paese in guerra, a causa della quale decine di banche e di grandi aziende erano già sull’orlo della bancarotta.
Un intralcio alle sanzioni contro la Russia
Inoltre, l’aumento dei prezzi del petrolio potrebbe intralciare i tentativi dell’Unione Europea e del G7 di imporre ulteriori sanzioni alla Russia, quando già faticano per mantenere l’efficacia delle sanzioni esistenti (di ieri è la notizia che la Svezia si impegnerebbe, dal 1° luglio, a bloccare le navi della “flotta ombra” che tentano di passare dal Baltico al Mare del Nord).
L’aumento dei prezzi del petrolio rende più difficile per i paesi europei imporre nuove sanzioni senza danneggiare le loro economie, che dipendono cronicamente dalle importazioni di petrolio. Più nello specifico, poi, fa apparire lunare l’abbassamento del “tetto al prezzo del petrolio russo” fino a 45 dollari al barile: se il petrolio russo, fino a ieri sera, si era venduto tra i 47 e i 54 dollari, e dunque era facile per l’India o la Turchia fare un passo in più e rispettare un tetto di 45 dollari, adesso è balzato oltre i 60, e dunque la compliance con le nuove sanzioni europee diventa impossibile persino per le potenze più filo-occidentali.
Discorso analogo vale per la famosa proposta Graham – Blumenthal, che il Congresso americano sta contrapponendo alla deriva filo-russa di Trump. 84 senatori su 100 si sono già detti disposti a infliggere dazi del 500% a qualunque paese che acquisti petrolio o gas dai russi. Una maggioranza schiacciante, che impedirebbe a Trump di usare il suo potere di veto, ma che purtroppo esiste solo nel Senato: nella Camera dei Rappresentanti è ancora troppo esigua e resterebbe spazio per il veto del miliardario.
Ora, se il prezzo del petrolio torna alle stelle, ben pochi paesi accetterebbero l’uscita del petrolio russo dai mercati mondiali, un calo ulteriore dell’offerta e quindi un aumento ancora più insostenibile dei prezzi. Lo scontro diretto tra Iran e Israele neutralizza, di fatto, la proposta Graham – Blumenthal e ridà fiato al putinismo di Trump.
Ma per l’Europa non è tutto nero
D’altra parte, l’attacco ha dimostrato la superiorità tecnologica degli armamenti di Israele, in particolare dei suoi caccia F-35, che hanno letteralmente polverizzato i sistemi di difesa antiaerea e i caccia del regime iraniano, molti dei quali erano di fabbricazione russa.
Di fatto, gli F-35 hanno potuto colpire gli appartamenti privati dei Pasdaran nel pieno centro della capitale persiana e poi tornarsene alle basi indisturbati.
Questo successo potrebbe rafforzare la fiducia degli alleati della NATO nelle loro capacità militari, nel caso in cui scoppiasse quel conflitto convenzionale con la Russia di cui si notano sempre più tristi avvisaglie nei paesi del Baltico.
Al momento, infatti, la supremazia aerea è l’ultima vera carta che i paesi europei della NATO hanno in mano per vincere un simile conflitto: una volta che la guerra assumesse il volto che ha oggi in Ucraina, con vastissimi volumi di munizioni di artiglieria e un cratere di 40km intorno al fronte pattugliato dai droni, gli europei, incapaci di produrre sia le munizioni che i droni, verrebbero sconfitti senza dubbio.
La dimostrazione della superiorità tecnologica di Israele potrebbe anche incoraggiare ulteriori investimenti e partnership nella difesa tra i paesi europei, rafforzando la posizione della NATO nel contesto geopolitico attuale.
In conclusione, l’ideale per noi europei sarebbe una rapida interruzione delle ostilità dirette tra Iran e Israele: ci porteremmo a casa la dimostrazione della superiorità dei nostri armamenti su quelli russi, ma scemerebbe in qualche settimana l’impennata del prezzo del petrolio.
Per di più, se dopo questa batosta l’Iran volesse cambiare postura nei colloqui sul nucleare, saprebbe di poter trovare negli europei interlocutori più neutrali e disponibili al compromesso rispetto ai MAGA statunitensi.
La palla però, purtroppo, è nel campo di Netanyahu e di Khamenei.