IRPEF e ceto medio. L’anomalia italiana e le due possibili soluzioni

Irpef Ceto medio
Yuri Brioschi
05/10/2025
Appunti di Viaggio

Con l’avvicinarsi della Legge di Bilancio 2026, torna in primo piano il tema del taglio delle tasse per il ceto medio. Sebbene l’intenzione sia lodevole, le ipotesi di riforma sul tavolo hanno un impatto molto diverso.

I numeri attuali del nostro sistema IRPEF mostrano un’anomalia unica in Europa: un carico fiscale sproporzionato che grava proprio sulla fascia di reddito che, di fatto, sostiene la maggior parte del gettito. Analizziamo perché.


L’anomalia Italiana: chi paga veramente l’IRPEF?

I dati ufficiali del MEF e dell’Agenzia delle Entrate sono chiari e, per alcuni, sconcertanti:

  1. Concentrazione del carico: Nel 2024, il 76,87% dell’intera IRPEF è pagato da appena 11,6 milioni di contribuenti (circa un quarto dei dichiaranti). I restanti 31 milioni di dichiaranti coprono solo il 23,13% del totale.
  2. Il Peso del “ceto medio”: La fascia che contribuisce in modo massiccio è quella dei redditi tra 55.000 e 200.000 euro: pur essendo solo il 5,8% dei dichiaranti, genera quasi il 30% del gettito complessivo. Sono loro, insieme ai redditi più alti, il motore fiscale del Paese.

La sottile linea rossa a 50.000 Euro

In sostanza, in Italia si inizia a pagare l’aliquota massima del 43% (che, sommate alle addizionali locali, può arrivare facilmente al 45% e oltre) su ogni euro guadagnato sopra i 50.000 euro lordi. Questo reddito corrisponde a uno stipendio netto mensile di circa 2.500 euro.

Negli altri Paesi europei (Germania, Francia, Gran Bretagna) un’aliquota così alta scatta solo a livelli di reddito 3 o 4 volte superiori. Questa fascia di lavoratori, che in Italia viene fiscalmente considerata “ricca”, è invece la spina dorsale del Paese, ma viene privata di detrazioni e agevolazioni ISEE.


Le due opzioni per il taglio delle tasse: Caffè vs. Sconto Sostanzioso

Il Governo sta valutando due ipotesi principali per rimodulare gli scaglioni. La differenza tra le due opzioni è cruciale e incide profondamente sul reale beneficio per le famiglie.

Opzione 1: taglio minimo (Il “Caffè al giorno” )

  • Proposta: Portare l’aliquota per i redditi compresi tra 28.000 € e 50.000 € dal 35% al 33%.
  • Impatto: Un taglio di appena due punti percentuali sulla parte di reddito interessata (22.000 €).
  • Risultato: Lo sconto fiscale massimo ammonterebbe a circa 440 euro all’anno (22.000 € ×2%). Un beneficio quasi impercettibile nella busta paga mensile.

Opzione 2: la svolta trutturale (lo sconto sonsistente)

  • Proposta: Estendere l’aliquota ridotta (es. 33%) fino a 60.000 euro di reddito annuo.
  • Impatto: Questa è una vera e propria manovra sul ceto medio, perché riduce di ben 10 punti percentuali l’aliquota marginale sulla fascia di reddito più colpita (50.000 € – 60.000 €).
  • Risultato: Per chi ha un reddito di 60.000 euro o più, lo sconto fiscale su questa specifica fascia (10.000 €) genererebbe 1.000 euro di tasse in meno all’anno, a cui si aggiungerebbe lo sconto sulla fascia precedente. Un risparmio complessivo consistente e significativo per il potere d’acquisto delle famiglie.

Serve coraggio: la sfida del “Fiscal Drag” e dell’ISEE

Un vero e proprio riequilibrio del sistema non può limitarsi a un singolo taglio di aliquota, ma deve affrontare due problemi strutturali:

1. La sterilizzazione del Fiscal Drag

Il drenaggio fiscale (Fiscal Drag) è il prelievo “silenzioso” dello Stato che si verifica in tempi di inflazione. Quando i salari vengono adeguati (anche solo per coprire l’aumento dei prezzi), l’aumento del reddito nominale spinge i lavoratori in uno scaglione IRPEF più alto, aumentando le tasse, pur non avendo un reale aumento del potere d’acquisto.

La soluzione strutturale: Indicizzare gli scaglioni di imposta e le detrazioni/deduzioni all’inflazione. Questo eviterebbe che lo Stato guadagni sistematicamente sul peggioramento del potere d’acquisto dei dipendenti.

2. L’adeguamento delle soglie ISEE

Oltre alle tasse, l’inflazione e il Fiscal Drag hanno un effetto perverso sulle agevolazioni sociali. L’aumento nominale del reddito fa sforare le famiglie dalle soglie ISEE (Indicatore della Situazione Economica Equivalente) per l’accesso a servizi essenziali (come asili nido o agevolazioni universitarie), facendole perdere i diritti sociali.

La Soluzione Strutturale: Indicizzare all’inflazione anche le soglie di reddito utilizzate per l’ISEE.

Queste riforme sono inizialmente costose per le casse statali, perché riducono il gettito automatico, ma garantirebbero benefici strutturali, restituendo equità e certezza a milioni di contribuenti che, oggi, si sentono ingiustamente penalizzati dal sistema fiscale. Per cambiare veramente marcia, non servono solo ritocchi, serve coraggio.