Il Contratto, ovvero come in Campania e nel Sud il potere si perpetua
«Non si buttano al mare dieci anni di lavoro.» Questa frase, pronunciata di recente da Vincenzo De Luca, è una chiave di lettura imprescindibile per capire le prossime elezioni regionali in Campania. Un vero e proprio “contratto” non scritto che lega il potere a un sistema consolidato, dove nulla si lascia al caso, nemmeno la formalità della candidatura.
Dal contratto di Eduardo al contratto di Vincenzo
Nella celebre commedia Il Contratto, Eduardo De Filippo racconta la storia di Geronta Sebezio, un uomo che promette di resuscitare i morti, ma che in realtà traffica con i beni ereditari delle famiglie, ingannando la loro speranza e manipolando le loro aspettative. Dietro un’apparente promessa di rinascita si cela un gioco di potere e interessi nascosti. Lo scenario politico campano ricorda molto questo gioco. L’attuale presidente della Regione Vincenzo De Luca, pur essendo incandidabile per legge, ha tentato a lungo di forzare la legge per rincorrere un terzo mandato, usando la seguente logica: “siccome non avevamo mai approvato la legge sul limite dei due mandati, la approviamo ora e la facciamo valere per il futuro“; la Corte Costituzionale – purtroppo per lui – non se l’è bevuta. Nonostante il divieto di ricandidatura, De Luca oggi non ha alcuna intenzione di abbandonare il palcoscenico. Anzi, lavora per tirare le fila della prossima legislatura con la consapevolezza che il potere non è solo nella poltrona del presidente, ma soprattutto nelle mani di chi sa costruire e mantenere “contratti” politici e personali.
Roberto Fico e il PD: la scelta sotto dettatura?
Per superare De Luca e anche il “deluchismo”, il Partito Democratico, di cui Vincenzo De Luca è comunque un esponente, ha demandato al sindaco di Napoli Gaetano Manfredi la tessitura della tela. E l’ex rettore dell’Università Federico II di Napoli ha rinverdito i fasti bizantini del parakoimomenos: il gran ciambellano che tesse e decide mentre al popolo viene offerto un volto di un imperatore fantoccio. Nel copione che sta prendendo forma, Manfredi applica lo stesso schema a Roberto Fico: propone il suo nome come “figura di porpora” ma tiene salde le leve (liste, alleanze territoriali, programmazione delle candidature, criteri per la futura giunta, nomine-chiave nel sottogoverno regionale). A Fico il ruolo di simbolo del “superamento del deluchismo”; a Manfredi la regia dei contratti politici, la gestione del dossier amministrativo e il controllo dell’agenda negoziale con gli alleati civici e i potentati locali. E con De Luca stesso.
Di fronte a questo schema, De Luca prima ha detto “mai”, poi “no”, poi “non credo” e poi ha aperto il tavolo negoziale, che ha portato alla candidatura unica e dunque all’elezione di suo figlio Piero come segretario regionale del PD e soprattutto alla legittimazione della sua lista personale “A Testa Alta” come un pezzo della futura coalizione elettorale campolarghista. Per la verità, De Luca di liste ne voleva due, ma alla fine si è accontentato di averne una sola e di sparpagliare suoi uomini e donne nelle diverse liste, tanto nel centrosinistra, quanto nel centrodestra.
L’assenza pesante di una candidatura forte nell’opposizione
Se da una parte c’è questa dinamica competitiva-cooperativa tra i probabili vincitori, dall’altra l’opposizione appare smarrita e rinunciataria. Prendiamo Fratelli d’Italia, partito di governo e della premier Meloni. Aveva forse una carta vincente: Catello Maresca, magistrato di spessore, uomo di specchiata rettitudine e con un profilo capace di parlare a un elettorato ampio e trasversale. Ma niente da fare: il suo nome non è stato avanzato. Aveva la possibilità di proporre un tecnico che si sta facendo apprezzare come commissario della ZES del Sud, Giosi Romano, ma anche il suo nome è rimasto alla fine nel cassetto, perché il timore dei maggiorenti campani del centrodestra è l’emersione di figure nuove che possano scalfire la loro imperitura rendita di posizione locale (anzi, rendita di opposizione).
A tutto questo, si aggiunge la candidatura folkloristica di Stefano Bandecchi, outsider con importanti risorse economiche e mediatiche, che però è più un modo per arricchire la commedia eduardesca di traffici di beni e potere, che una vera offerta politica alternativa. Per chi avesse dubbi in merito, segnalo la candidatura della “già dottoressa” Maria Rosaria Boccia nelle fila bandecchiane.
Se la Campania fosse un campo da calcio, ci sembrerebbe a queste elezioni di assistere a una partita Brasile contro Giugliano Calcio. Un divario tale da rendere la partita una formalità, un atto di presenza più che una sfida vera. Un contratto, appunto, che si rinnova ciclicamente per mantenere e resuscitare il potere (incluso quello dei capi dell’opposizione).









