Frodo, Temistocle, Churchill: quando il bene vince quasi per sbaglio

gollum volcano
Emanuele Pinelli
17/06/2025
Radici

Mio padre ci raccontava Il Signore degli Anelli a puntate durante le camminate in montagna.
Era l’estate dei miei otto o nove anni quando lui stava leggendo per la prima volta il capolavoro epico di Tolkien. Così, ogni volta che aveva finito abbastanza capitoli e sentiva di avere per le mani materiale sufficiente, ci intratteneva per ore e ore lungo i sentieri, distraendoci a tal punto che neanche ci veniva in mente di lamentarci per la noia o la stanchezza.
(Mio padre ha una memoria portentosa).

Arrivati al culmine della storia, quando tutto doveva decidersi e la missione di Frodo era appesa a un filo, sia lui che io morivamo dalla curiosità di scoprire come sarebbe finita.
Lui riuscì a contenersi, io no.
Entrai di nascosto nella camera dei grandi, presi il volume e saltai direttamente al capitolo del Monte Fato.

Chi conosce la trama del romanzo, magari grazie ai popolarissimi film che uscirono qualche anno dopo, ricorderà quanto sia centrale il meschino personaggio di Gollum. Gli sforzi e i sacrifici dei grandi eroi non sarebbero valsi a nulla senza l’aiuto involontario di quell’esserino infantile, penoso e consumato da una nostalgia puramente affettiva per l’Unico Anello.

Da adulto avrei capito il profondo messaggio cattolico e umanistico che Tolkien voleva dare ai suoi lettori con questa scelta, ma da bambino, lì per lì, ci restai male.
Tutto quel grande conflitto tra la luce e le tenebre si risolveva davvero tramite Gollum? Grazie a un dettaglio insignificante? Sostanzialmente per caso?


Greci contro persiani…o no?

Il Signore degli Anelli è un’epica fondata su eventi fantastici, che attingono al meglio della mitologia nordica, biblica e greca. Ma nel nostro immaginario collettivo esistono anche epiche che sono state ricamate su eventi reali.
Pensiamo alla resistenza dei greci contro le invasioni dei persiani, che già dai suoi stessi protagonisti veniva vissuta come la lotta della libertà europea contro la tirannia asiatica.

È un mito che, a partire dal V secolo a.C., si è talmente radicato nella nostra cultura da accompagnarne l’intero sviluppo fino al crollo del Muro di Berlino.
Un mito così efficace che oggi le potenze dell’Asia non lo contestano, ma al massimo lo rovesciano: da Riyadh a Pechino a Singapore, il despotismo viene lodato apertamente come sorgente di ordine e progresso, mentre la libertà all’europea viene ritenuta foriera di divisione e decadenza.

Ancora ai tempi delle guerre del Golfo, la battaglia delle Termopili contro i persiani diventò a sorpresa un pilastro della cultura pop grazie al fumetto di Frank Miller sui trecento spartani.
Anche da questo, nel 2007, venne tratto un film, considerato uno degli ultimi manifesti dei maschi spacconi, camerateschi e neocon che volevano liberare il mondo dal misticismo e dalla tirannia”.
Un celebre sketch comico diceva: “Se preferire 300 a La vita è bella vuol dire essere di destra, ebbene, anch’io sono di destra!”
Poi sul conservatorismo americano si abbatterono la crisi, gli smartphone e Trump. Ma questa è un’altra storia.

Ora, 300 è un fumetto non sempre attento all’esattezza storica (per usare un eufemismo), ma ha un pregio in comune con la sua fonte, le Storie di Erodoto di Alicarnasso: entrambi fanno capire benissimo che i greci erano tutt’altro che convinti di voler rischiare la pelle contro i persiani.
Il desiderio di “rendere la Grecia libera e non schiava” non era affatto universale e, anzi, fino all’ultimo momento i greci traditori, opportunisti o rassegnati rischiarono di sopraffare quelli intenzionati a resistere.

Gli abitanti delle regioni settentrionali come la Macedonia e la Tessaglia passarono coi persiani quasi subito – ad eccezione dei Focesi, che però si opposero solo per ripicca verso i Tessali e non certo per amore della libertà.
Tebe, l’arcinemica di Atene, accolse l’invasore con tutti gli onori, insieme a quasi tutta la regione circostante della Beozia.
Pochissimi sono i casi documentati di diserzione tra gli Ioni, ovvero i greci della costa asiatica che ormai militavano sotto il Gran Re.

Le astuzie di Temistocle


Anche tra gli ateniesi c’era chi avrebbe preferito sottomettersi piuttosto che subire la devastazione della città.
Quando il povero Temistocle andò a consultare l’Oracolo, il primo responso fu un secco invito a fuggire perché la sconfitta era certa.
Temistocle dovette fare all’Oracolo donazioni più generose e pretendere una seconda profezia, che in effetti fu lievemente più accomodante: “Le mura di legno non cederanno”.
Dovette poi convincere i cittadini che “le mura di legno” fossero le navi, e quindi che almeno sul mare si potessero battere i persiani. Tuttavia faticò, perché gli indovini ufficiali di Atene erano quasi unanimi nel respingere questa interpretazione e nel suggerire una linea arrendevole.

Per poter combattere la prima battaglia navale, al largo dell’Eubea, Temistocle dovette corrompere uno per uno gli ammiragli delle altre flotte greche, che se avessero dato ascolto ai loro equipaggi si sarebbero ritirati.
Per la battaglia decisiva di fronte all’isola di Salamina, poi, dovette addirittura impedire fisicamente la fuga dei suoi alleati, col seguente stratagemma: fece sbarcare a terra un finto disertore, che suggerì al Gran Re una manovra di accerchiamento notturno della flotta greca. La mattina dopo, risvegliandosi circondati, i recalcitranti alleati di Temistocle furono costretti a battersi per forza, e così ottennero (controvoglia) il trionfo della libertà sulla tirannia.

Perduto il controllo dei mari, il Gran Re riportò in Asia metà delle sue armate, che ormai non sarebbe più riuscito a rifornire.
Temistocle ne approfittò per fargli sapere che aveva dissuaso gli altri greci dal tagliargli la ritirata: era falso, ma almeno il tiranno barbaro gli sarebbe stato grato, e forse l’avrebbe ospitato in Persia nel caso in cui gli altri ateniesi, dei quali non si fidava affatto, l’avessero esiliato.

Nel frattempo, l’altra metà delle armate persiane si era accampata per l’inverno.
Quando riprese le operazioni, gli ateniesi chiesero agli spartani di combattere con loro a nord dell’istmo di Corinto per evitare un secondo saccheggio di Atene.
Gli spartani, però, avevano lavorato tutto l’inverno per innalzare una muraglia lungo l’istmo e preferivano restarsene al sicuro dietro di essa.
Furibondi, gli ateniesi minacciarono che allora sarebbero passati dalla parte dei persiani. Solo così gli spartani si convinsero, marciarono verso nord e vinsero (controvoglia) la battaglia finale di Platea.

Insomma, per salvare la libertà fu necessario bluffare dicendo di voler passare con la tirannia.

La seconda guerra persiana.
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Vecchie e nuove superstizioni


I nostri professori del liceo ci insegnavano che quella di Erodoto non era buona storiografia, proprio perché si perdeva in questi minuziosi aneddoti su vendette, rivalità, doppi giochi e presagi divini.
La buona storiografia, ci insegnavano, era quella di Tucidide, che indagava invece sulle “cause remote” degli eventi dismettendone le “cause apparenti”: viva gli scontri tra “sfere di influenza”, abbasso gli aneddoti e i prodigi irrazionali.

Ebbene, quella poca dimestichezza che ho acquisito con la politica mi fa invece pensare che le cose siano andate proprio come le narrava Erodoto: un guazzabuglio imprevedibile di calcoli egoistici, tare psicologiche e superstizioni magiche, dove fino all’ultimo non era affatto chiaro chi stesse con la Grecia e chi con la Persia, chi davvero volesse la libertà, chi la tirannia e chi nessuna delle due in particolare.
Un nonnulla al momento sbagliato poteva fare la differenza.

Altro che lo scheletrico determinismo delle “sfere d’influenza” e delle “cause remote”. Queste ultime, forse, sono superstizioni tanto irrazionali quanto le preghiere agli dèi del vento con cui gli ateniesi provavano a far naufragare le navi persiane.

Cosa fare nell’ora più buia

Ora, è curioso come anche la seconda mitologia che ha plasmato il nostro attuale immaginario, quella della Seconda Guerra mondiale, abbia semplificato e romanticizzato un conflitto in cui la libertà ha sconfitto l’oppressione per un soffio e in maniera quasi casuale.

Nell’estate del 1940, non c’era nazione europea che non stesse almeno in parte sostenendo il Terzo Reich: chi con regimi alleati, come quello di Mussolini, chi con regimi collaborazionisti, come quello di Pétain, chi con accordi di spartizione, come l’Unione Sovietica, chi col libero passaggio delle truppe, come la Svezia, chi con la custodia dei denari in banca, come la Svizzera.
Resisteva la Gran Bretagna, dove però una parte non trascurabile del governo di unità nazionale cercava ancora di isolare Churchill e di stringere l’accordo con il Führer.

L’America, non ancora ferita da Pearl Harbor, incoraggiava questi negoziati attraverso personalità come l’ambasciatore antisemita e filonazista Joseph Kennedy, e manteneva in vigore un bando sull’esportazione delle proprie armi persino mentre Londra era sotto le bombe.
Anche su questo è stato girato un film, L’ora più buia (storicamente un po’ più accurato di 300), che mostra un Churchill costretto a far trainare con i buoi i caccia prodotti negli USA fino al Canada britannico pur di non infrangere la legge contro l’esportazione di armi.

Quanto era probabile che la Gran Bretagna riuscisse a resistere “finché, col favore di Dio, il nuovo mondo con la sua potenza verrà a soccorrere e a liberare il vecchio”?

In conclusione, il racconto immaginario di Tolkien sulla sconfitta dell’Unico Anello è davvero così diverso da un racconto storicamente onesto sulla sconfitta dell’Impero persiano e sulla sconfitta del Terzo Reich?

Forse no. Ed è il motivo per il quale non dobbiamo disperare quando abbiamo l’impressione che, nell’ora più buia, si incontrino solo traditori, opportunisti, rassegnati e semplici indecisi: in una parola, uomini.