Fine vita, l’Italia a macchia di leopardo. Abbate (Campania): “Non occuparsene viltà morale”
In Europa, il fine vita non è più un tabù. Spagna, Belgio, Olanda e Portogallo hanno leggi chiare, procedure pubbliche e controlli etici. In Italia, invece, il diritto a scegliere come morire continua a dipendere dal codice postale. È un Paese a macchia di leopardo, dove alcune Regioni cercano di dare applicazione alla sentenza n. 242 del 2019 della Corte costituzionale, mentre altre restano immobili di fronte a un Parlamento che, da sei anni, non trova il coraggio di legiferare.
Le Regioni che si muovono
La Toscana ha approvato un regolamento che disciplina tempi e responsabilità sanitarie per il suicidio medicalmente assistito. L’Emilia-Romagna ha introdotto linee guida per le proprie aziende sanitarie, e le Marche stanno sperimentando comitati etico-clinici per la valutazione dei casi. In queste regioni, le richieste non finiscono più nei tribunali ma trovano un iter amministrativo, con medici e strutture pubbliche a garantire il rispetto dei criteri fissati dalla Consulta: malattia irreversibile, sofferenze intollerabili, dipendenza da sostegno vitale e volontà consapevole.
La sentenza 242/2019 della Corte costituzionale ha rappresentato un punto di svolta, stabilendo che l’aiuto al suicidio non è punibile se ricorrono determinate condizioni e se la decisione avviene all’interno di un contesto sanitario pubblico. Tuttavia, la Corte non ha fornito un modello procedurale, affidando alle Regioni il compito di definire tempi, comitati di valutazione e responsabilità mediche.
Da qui nasce la frammentazione attuale: dove le Regioni hanno legiferato, i cittadini possono accedere a un percorso sanitario definito; dove non lo hanno fatto, ogni caso resta affidato all’interpretazione delle ASL o ai tribunali. Gli esperti di bioetica sottolineano che questa incertezza genera una disuguaglianza giuridica e territoriale, con il rischio che un diritto costituzionalmente riconosciuto diventi di fatto un privilegio geografico.

La Campania che si è fermata
Al Sud, invece, tutto tace. La Campania aveva una possibilità concreta di cambiare rotta. A marzo 2025, il consigliere regionale Luigi “Gino” Abbate, medico e membro della V Commissione Sanità, ha presentato una proposta di legge per regolamentare tempi e procedure del suicidio medicalmente assistito all’interno del Servizio sanitario regionale. Il testo, conforme alla 242/2019, prevedeva équipe multidisciplinari nelle ASL e tempi certi di risposta per i pazienti.
«Ho presentato una proposta che non apre a derive etiche — spiegava Abbate mesi fa — ma garantisce certezza del diritto, perché nessun cittadino deve restare prigioniero del silenzio amministrativo davanti a una scelta estrema».
La legge, però, non è mai arrivata in Aula. Dopo mesi di rinvii, la legislatura si chiude e con essa l’iniziativa.
«È una pagina di ipocrisia politica — ha denunciato in estate — Si è preferito tacere per paura di toccare un tema divisivo. Ma il silenzio non è neutralità: è un modo per lavarsi le mani del dolore altrui».
Un vuoto politico e morale
Il caso campano non è un’eccezione: è il simbolo di un Paese che riconosce un diritto ma non lo rende praticabile. Mentre alcune Regioni traducono la sentenza della Corte in norme concrete, altre si nascondono dietro l’attesa di una legge nazionale che non arriva. Il Parlamento, paralizzato dal timore di spaccature etiche, ha scelto l’indifferenza.
«La dignità non può essere un tabù politico — dice ora Abbate —. Se non lo approviamo ora, non sarà solo un fallimento legislativo, ma un atto di viltà morale».
In Italia, il diritto al fine vita resta così sospeso: non negato, ma nemmeno garantito. Un diritto “in attesa”, affidato al coraggio di pochi amministratori locali e al silenzio complice della politica nazionale.
Nel resto d’Europa, il fine vita è un terreno di confronto civile e regolato; in Italia, resta un tema di paura. Ogni rinvio alimenta la disuguaglianza tra territori, e ogni silenzio pesa sulle famiglie che vivono nell’incertezza. La proposta campana — anche se destinata a decadere — mostra che una via è possibile, se la politica accetta di misurarsi con il dolore reale e non solo con il consenso.
Per questo, l’Italia non ha bisogno di nuovi annunci, ma di un atto di civiltà legislativa: una legge chiara, equa e nazionale, che metta fine alla geografia morale del dolore.








