Evoluzioni belliche contemporanee: il conflitto ucraino nel 2025

Donatello D'Andrea
10/06/2025
Frontiere

A tre anni dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina, il conflitto ha cambiato pelle, ma non ha smesso di mordere. Non è più una guerra di conquista rapida, come immaginata da Mosca nelle prime ore dell’offensiva, né una guerra di difesa lineare, come auspicato dai partner occidentali di Kyiv. È diventata una guerra di logoramento multilivello, in cui la battaglia si combatte su quattro piani sovrapposti: operativo, informativo, simbolico e narrativo. Sul campo si muovono droni e sabotatori; nelle retrovie si manovrano percezioni, equilibri interni e opinioni pubbliche. Il tempo è diventato una risorsa strategica, ma anche un rischio per entrambi i fronti.

Evoluzioni geopolitiche del 2025

Nel 2025, il panorama internazionale attorno alla guerra si è fatto più fragile e meno coeso. L’attenzione geopolitica è dispersa, polarizzata da nuove crisi regionali e da una competizione sistemica che ha rimesso in discussione molte delle priorità del fronte transatlantico. Il ritorno di Donald Trump come attore politico centrale negli Stati Uniti ha raffreddato le spinte verso un supporto militare continuativo all’Ucraina, alimentando incertezza tra gli alleati europei. Mosca, consapevole di questa stanchezza strategica, ha scelto una tattica attendista e adattiva, fatta di progressivi aggiustamenti tattici e propaganda continua, in attesa di un’occasione per ricostruire il proprio vantaggio negoziale.

Nel frattempo, Kyiv continua a esistere e resistere. Ma non è più l’Ucraina dell’eroismo di Bucha o della controffensiva di Kharkiv. È un paese stanco, ma lucido, costretto a reinventare continuamente la propria postura militare e comunicativa per sopravvivere a un conflitto che ha perso la struttura classica della guerra. Ciò che resta è una guerra simbolica e performativa, in cui ogni attacco mirato — come quello alle basi aeree russe — o ogni fallimento tattico — come quello contro il ponte di Kerch — ha una risonanza che va oltre l’esito immediato. Una guerra che si fa narrazione, e che della narrazione vive e sopravvive.



Una guerra che cambia pelle – dal campo di battaglia al dominio simbolico

La dimensione militare della guerra in Ucraina nel 2025 presenta caratteristiche nuove. Le operazioni su vasta scala da parte ucraina si sono ridotte drasticamente, sostituite da incursioni chirurgiche e dirompenti: droni che colpiscono basi aeree russe, il ritorno costante degli attacchi al Ponte di Kerch (il terzo, dall’inizio del conflitto), e sabotaggi mirati in profondità nel territorio nemico. Non si tratta solo di operazioni di resistenza: sono azioni pensate per produrre effetti strategici attraverso la disorganizzazione, l’incremento del costo di controllo territoriale da parte russa e la destabilizzazione della logistica militare nemica.

Oltre al danno fisico, queste incursioni sono concepite come messaggi strategici. Non è solo il bersaglio a contare, ma il valore simbolico del colpo inferto: una pista aerea devastata, un radar cieco o un ponte colpito servono a comunicare vulnerabilità strutturali, più che infliggere perdite tattiche decisive. La guerra ucraina si muove così sul terreno della semiotica militare, in cui ogni attacco è un atto performativo rivolto a tre destinatari: il nemico, gli alleati e l’opinione pubblica globale.

La distruzione di aerei, depositi o infrastrutture critiche non va misurata solo in termini di danni fisici. Il vero effetto è la creazione di insicurezza strutturale nel cuore stesso del sistema militare russo. Un esempio, in questo senso, è il grande attacco a ben cinque basi aeree, eseguito utilizzando un misto fra creatività (i camion) e utilizzo certosino dell’IA. Questo obbliga Mosca a rivedere le priorità difensive, a destinare risorse crescenti alla protezione del proprio territorio, compromettendo l’efficienza offensiva. La guerra, in questa configurazione, si muove secondo le logiche della guerra sistemica: logistica, comunicazione, e percezione.

Il terzo attacco al Ponte di Kerch, non avendo raggiunto l’obiettivo massimo, ha generato invece un effetto collaterale (chiaramente narrativo) problematico per l’Ucraina. Tentare un’operazione così sofisticata ha inevitabilmente esposto i canali logistici segreti utilizzati per avvicinarsi all’obiettivo. Se un’operazione così complessa fallisce, il nemico apprende: le falle sfruttate vengono chiuse, e la prossima incursione simile dovrà inventare nuovi varchi. È il prezzo della visibilità: mostrare capacità significa spesso comprometterne la replicabilità.

Dal lato russo, la risposta rimane ancorata a una dottrina tradizionale: missili balistici, droni kamikaze, attacchi su centri urbani. La strategia di Mosca è meno innovativa, ma più brutale, e ha una chiara funzione politica: mantenere alta la tensione sul fronte interno ucraino, distruggere infrastrutture civili per minare la resilienza della popolazione e produrre una narrazione di inevitabilità della guerra. Tuttavia, la catena di comando russa appare indebolita: la mancanza di operazioni complesse, segrete e multidimensionali suggerisce l’incapacità di progettare e mantenere il controllo interno sulle forze armate. La Russia combatte con la forza bruta perché non può permettersi altro.

La percezione della guerra più che il campo di battaglia

La guerra moderna ha cambiato morfologia. Non è più solo avanzata o ritirata: è un processo semiotico integrato, dove la gestione della percezione è cruciale quanto il controllo del terreno. Il campo di battaglia oggi include il flusso informativo, l’algoritmo virale e la curva dell’indignazione pubblica. In questo, l’Ucraina ha costruito un frame narrativo stabile, che continua a essere spendibile sul piano diplomatico e mediatico: quello della resistenza democratica contro il neoimperialismo russo.

Intanto, la comunicazione — da sempre centrale in questa guerra — ha assunto un valore strategico ancor più evidente. L’Ucraina utilizza la comunicazione per rafforzare la percezione della propria resilienza, per continuare a raccogliere sostegno internazionale e, soprattutto, per non far uscire la guerra dall’agenda dei media occidentali. Le immagini dei droni, i report quotidiani sui social dei ministeri, i video delle operazioni speciali sono tutti strumenti di performatività geopolitica: costruiscono la narrazione, consolidano il consenso, disegnano uno scenario binario (Ucraina aggredita, Russia aggressore).



La Russia, invece, appare ferma a una comunicazione bellica di tipo novecentesco: intimidazione, punizione collettiva, ripetizione ossessiva dei messaggi propagandistici. La sua incapacità di progettare operazioni militari complesse è specchio della sua rigidità strategica più profonda: la narrazione del potere muscolare come unica legittimazione del conflitto. Il bombardamento civile non è solo un mezzo bellico: è parte integrante della costruzione simbolica del “nemico fragile”, dell’Ucraina punita per la sua ostinazione.

Negoziati congelati: la performatività della comunicazione bellica

Nel 2025, il teatro negoziale della guerra russo-ucraina è entrato in una fase di cristallizzazione comunicativa. Più che una vera trattativa, siamo di fronte a una messa in scena diplomatica in cui ogni attore parla a un pubblico diverso, perseguendo obiettivi di posizionamento narrativo più che risolutivi. Non è più il tavolo a contare, ma come ci si siede, chi ti guarda mentre lo fai, e cosa riesci a far credere che stai facendo.

La dimensione performativa del negoziato è diventata centrale: non si tratta più di trovare un’intesa, ma di costruire cornici discorsive compatibili con le esigenze dei rispettivi fronti interni. La Russia, guidata da un Putin sempre più attento ai meccanismi di legittimazione interna, non può permettersi alcuna narrazione di arretramento, anche considerata la precaria situazione finanziaria del paese.

Ogni messaggio di apertura va prima testato sul piano interno: l’idea di “trattare” deve essere assorbita dalla popolazione come una prova di forza, non di debolezza. Ecco perché ogni spiraglio negoziale è accompagnato da un attacco missilistico, una dichiarazione muscolare, una retorica della fermezza. La diplomazia russa è ostentatamente inflessibile perché deve performare il controllo.

Dall’altro lato, l’Ucraina si trova in un gioco ancora più complesso: mantenere il sostegno internazionale, evitare la percezione di resa, e contenere un’opinione pubblica che, pur stanca, non può essere disillusa. Zelensky si è trasformato in un attore comunicativo transnazionale, che si muove tra talk internazionali, conferenze stampa e video appelli come un leader globale più che regionale. La sua figura si è istituzionalizzata come simbolo: non può permettersi aperture ambigue senza perdere parte del capitale simbolico accumulato.

Nel frattempo, gli Stati Uniti sono diventati un teatro a parte. La rielezione di Donald Trump ha profondamente modificato la grammatica del dibattito. Il suo metodo di conduzione delle relazioni internazionali si basa su una comunicazione spiazzante, iperbolica, e aggressiva. Le sue famose “24 ore per risolvere la guerra” sono diventate mesi di ambiguità, in cui nessuno sa cosa Trump intenda davvero, ma tutti sono costretti a rispondere a quella promessa. La conseguenza è una trappola discorsiva: qualunque evoluzione del conflitto verrà letta come un successo personale del presidente americano, anche se derivante da fattori indipendenti.

In questo clima, il dialogo tra Washington e Kyiv ha assunto toni teatrali. L’attrito tra Trump, Zelensky e Vance è diventato una coreografia permanente, fatta di dichiarazioni contrapposte, mezze smentite e riformulazioni strategiche. Il tavolo negoziale non esiste in senso concreto: esiste come luogo evocato, strumentalizzato, citato, mai praticato. I negoziati si giocano prima sui media, poi (forse) nelle stanze riservate.



L’impercettibilità narrativa dell’Europa nel mondo multipolare

Nel quadro di questa performatività diplomatica, l’Europa appare il grande assente comunicativo. I suoi leader, pur coinvolti politicamente ed economicamente, non hanno saputo costruire una narrativa autonoma, incisiva, riconoscibile. L’iniziativa è lasciata spesso a singole capitali — Berlino, Parigi, Varsavia e, come socio di minoranza, Roma — che si muovono in ordine sparso, senza un frame strategico condiviso. Questa disfunzione comunicativa indebolisce la capacità negoziale del continente, che risulta visibile solo come luogo di mediazione passiva, mai come soggetto narrante. L’assenza di una voce europea forte e coerente consegna il palcoscenico ai comunicatori dominanti — Mosca, Kyiv, Washington — lasciando Bruxelles in una posizione di irrilevanza semantica, nonostante la rilevanza geopolitica e finanziaria.

La guerra non è solo combattuta: è narrata. E la narrazione negoziale è essa stessa parte dello scontro. Putin prende tempo per far maturare un contesto più favorevole, consapevole che l’attesa può produrre nuove crepe nelle alleanze occidentali. Zelensky moltiplica i segni della resistenza, mostrando una disponibilità “ragionevole” al compromesso senza mai entrare nella fase negoziale vera e propria. Trump, infine, mantiene un’ambiguità di potere, che gli permette di dire tutto e il contrario di tutto, conservando l’illusione del controllo.

È la diplomazia come spettacolo performativo, dove gli attori non trattano, ma si posizionano narrativamente. La verità negoziale non interessa: ciò che conta è l’effetto percepito. Il silenzio può essere più rumoroso di una conferenza stampa. Un tweet può delegittimare settimane di preparazione. Una dichiarazione “off the record” diventa, in questo contesto, un atto strategico.

Questo è il vero nocciolo della diplomazia nel 2025: non la costruzione di un accordo, ma la costruzione del contesto in cui un accordo, se mai verrà, dovrà essere comunicato come una vittoria. In assenza di questo contesto, il negoziato non solo non procede, ma viene attivamente evitato, perché rischia di destabilizzare le narrazioni dominanti. Finché questa logica non verrà superata, la guerra continuerà a essere una forma di negoziazione armata della percezione.

Come cambia la guerra

La guerra russo-ucraina, nel 2025, ha cessato di essere una campagna bellica convenzionale e si è trasformata in un laboratorio avanzato di sperimentazione strategica e comunicativa. La linea del fronte, pressoché cristallizzata in molte aree, ha ceduto il passo a un conflitto ibrido e disseminato, in cui la tecnologia, l’intelligence, le operazioni speciali e la propaganda plasmano nuove forme di confronto armato. È una guerra che si combatte nello spazio fisico, ma si decide sempre più nello spazio informativo.

Uno degli aspetti più evidenti è la crescente importanza delle operazioni a lungo raggio e ad alta spettacolarità. L’attacco ucraino agli aeroporti russi, i colpi inferti alla logistica attraverso sabotaggi profondi, l’uso strategico dei droni per colpire infrastrutture critiche – tutto questo segnala una guerra che punta non tanto alla conquista territoriale quanto all’erosione sistemica della capacità operativa nemica. Questi attacchi diventano anche eventi mediatici, moltiplicando la loro efficacia simbolica: ogni drone che raggiunge Mosca è un messaggio diretto al Cremlino e, al tempo stesso, al pubblico internazionale.

Al centro di questa trasformazione c’è la progressiva perdita di centralità del campo di battaglia tradizionale. Il teatro bellico non è più solo la trincea o la postazione d’artiglieria, ma il datacenter, il server compromesso, il ponte simbolicamente strategico come quello in Crimea. L’Ucraina ha investito risorse crescenti in capacità cyber e guerra elettronica, nel tentativo di compensare l’inferiorità numerica e tecnologica attraverso asimmetrie tattiche intelligenti. L’intelligence umana e digitale ha assunto un ruolo decisivo, alimentando operazioni di precisione a lungo termine.

In parallelo, l’apparato militare russo si mostra ancorato a modelli novecenteschi: guerra d’attrito, uso intensivo di artiglieria, avanzamenti lenti e dispendiosi. Questa asimmetria strategica riflette anche una profonda differenza nei modelli organizzativi: da un lato un sistema flessibile, decentrato e in parte adattivo (quello ucraino), dall’altro una macchina centralizzata, rigida e compromessa da inefficienze endemiche e clientelismo.

La dimensione semiotica e narrativa nella guerra contemporanea

Ogni operazione bellica viene immediatamente trasformata in contenuto: video, foto, ricostruzioni, clip social. La comunicazione è parte dell’operazione stessa. Le forze armate ucraine costruiscono con attenzione la narrazione del coraggio, della resistenza, della resilienza nazionale. I russi rispondono con una propaganda difensiva, che cerca di sostenere la legittimità dell’intervento, spesso appellandosi a minacce esterne o alla presunta necessità di denazificazione. Ma l’efficacia di queste due narrazioni è asimmetrica: quella ucraina ha trovato sponde mediatiche e politiche in Europa e negli Stati Uniti, mentre quella russa fatica ad andare oltre i confini interni o delle sfere d’influenza consolidate.

Il conflitto si è poi de-territorializzato, assumendo i tratti di una guerra diffusa. I droni non si limitano più a sorvolare le trincee, ma colpiscono profondità strategiche, moltiplicando l’incertezza. Ogni città può diventare un target, ogni infrastruttura una vulnerabilità. Questo ha indotto una mutazione profonda nella gestione della sicurezza nazionale, soprattutto per la Russia, che deve ora ridefinire le sue priorità difensive interne.

Un ulteriore livello è rappresentato dalla guerra motivazionale. Il mantenimento del morale delle truppe e della popolazione civile è diventato un obiettivo strategico, specialmente per Kyiv. Le leadership ucraine hanno puntato su una narrazione patriottica e morale, sostenuta da una retorica che unisce passato storico e futuro democratico. La capacità di contenere le disillusioni, dopo i fallimenti della controffensiva del 2023-24, è un elemento cruciale della tenuta nazionale.

Non meno importante è la dinamica adattiva delle catene di comando. Se da un lato l’Ucraina ha mostrato grande capacità di gestione operativa distribuita, la Russia ha sofferto le purghe interne, la perdita di comandanti di medio livello, l’opacità delle decisioni strategiche. Questo ha prodotto un sistema lento, vulnerabile, incapace di produrre azioni coordinate complesse. E infatti, come notato, la risposta russa alle incursioni ucraine è stata spesso violenta, simbolica ma militarmente sterile.

La nuova grammatica della guerra

Infine, si è affermata una nuova grammatica della guerra, che vede il sabotaggio, la destabilizzazione e l’erosione come strumenti prevalenti rispetto alla conquista. Le guerre del futuro, e quella in corso ne è il prototipo, vedranno meno battaglie campali e più operazioni psicologiche, campagne ibride, sfide continue ai centri di comando e alle infrastrutture nemiche. In questo senso, la guerra in Ucraina è la prima vera guerra postmoderna d’Europa.

Un ulteriore elemento che contribuisce a comprendere il cambiamento strutturale della guerra contemporanea riguarda il fallito attacco ucraino al ponte di Kerch. Non si tratta semplicemente di un bersaglio mancato: quell’azione rappresenta un caso emblematico di come la dimensione bellica si sia spostata dal piano tattico a quello simbolico. Il ponte, in quanto infrastruttura materiale e narrazione propagandistica insieme, è divenuto un obiettivo ad alta densità semantica. Tentare di colpirlo — e fallire — non produce solo un mancato risultato operativo, ma genera un effetto comunicativo controproducente. Ogni errore visibile è infatti un messaggio, e in questo caso il messaggio che passa è quello della resilienza del sistema infrastrutturale russo, rafforzando la narrazione del Cremlino agli occhi della propria popolazione e della comunità internazionale.

Questo episodio dimostra come l’elemento sorpresa, in una guerra di lunga durata e ipermediatizzata, debba essere amministrato con estrema cautela. L’azione simbolica deve infatti essere calibrata in modo chirurgico: un attacco spettacolare ma inefficace può produrre l’effetto contrario, rafforzando l’avversario nel suo storytelling interno ed esterno.

Comprendere il conflitto per elaborare una pace duratura

Questa nuova morfologia del conflitto implica un ripensamento anche delle strategie di pace. Quando la guerra è ovunque e in nessun luogo, quando gli attori comunicano mentre combattono e combattono mentre comunicano, allora la risoluzione del conflitto non può più essere affidata solo ai trattati. Serve una ridefinizione sistemica delle condizioni di sicurezza, della logica della deterrenza e della legittimità.



Tre anni dopo l’inizio del conflitto, ci troviamo di fronte a una guerra che ha mutato forma ma non sostanza. Non è più una sequenza lineare di avanzate e ritirate, ma una guerra d’influenza, di usura, di percezioni e di simboli. Gli attacchi con i droni in profondità, come quelli alle basi aeree russe, rappresentano l’adattamento tecnologico e strategico a un teatro bellico frammentato, in cui l’impatto si misura più in termini sistemici che in conteggi distruttivi.

Anche i fallimenti tattici, come il tentato colpo al ponte di Kerch, non sono neutri: producono effetti controintuitivi, ridisegnano i margini operativi e, se mal calibrati, possono indebolire le opzioni future. È una guerra che si combatte tanto nei cieli quanto nelle menti: nel modo in cui si comunica un successo, si inscena una vulnerabilità, si nasconde una falla.

In questo contesto, la pace è un miraggio retorico, più che un orizzonte diplomatico. Le trattative sono ferme non solo per mancanza di risultati militari convincenti, ma perché manca una cornice narrativa entro cui costruire la plausibilità della pace. Né Mosca né Kyiv possono permettersi una resa narrativa: Putin attende una rivincita che possa essere venduta all’interno come vittoria di resistenza, mentre l’Ucraina ha urgente bisogno di continuare a mostrarsi resiliente e creativa sul piano bellico e strategico per mantenere coesa la propria popolazione e attivo il sostegno occidentale. Donald Trump, in attesa nei sondaggi statunitensi, rappresenta un’incognita che non aiuta il consolidamento di una visione diplomatica comune, mentre l’Europa arranca, più preoccupata della propria instabilità politica interna che della tenuta del fronte orientale.

In definitiva, il 2025 segna un punto di svolta comunicativa, più che bellica: la guerra è entrata pienamente nella sua fase performativa, dove ogni attacco, ogni sabotaggio, ogni parola è calibrata per alterare l’equilibrio percettivo del nemico, dell’alleato, dell’osservatore. La vera partita si gioca sulla legittimazione dei racconti, sulla possibilità di costruire una fine che sembri accettabile senza essere percepita come una sconfitta. Senza una narrazione condivisa della fine, la guerra non potrà finire. Potrà solo mutare ancora.