Rising Lion e Midnight Hammer: il culmine dell’escalation nella strategia israeliana.

Foresight di approfondimento in esclusiva per L’Europeista.
In questo articolo cerchiamo di fare chiarezza su quanto stia succedendo in Medioriente con l’attacco americano, analizzando la strategia israeliana in virtù dei precedenti foresight, tra cui questo del 30 ottobre 2023, già analizzato per L’Europeista. Di seguito svilupperemo gli argomenti trattati in un’ altro precedente foresight del 4 agosto 2024 ,aggiornandolo alla luce dei recenti sviluppi.
Quanto vediamo oggi materializzato in Iran è frutto di una mirata scelta strategica posta in essere esattamente un anno fa dal governo israeliano al fine di uscire da una trappola forzata, un trade-off, in cui lo Stato Ebraico fu obbligato per motivi strategico-strutturali.
Suddivideremo la nostra analisi in tre macro-settori, iniziando in primis con una revisione sistematica del foresight relativo all’escalation dell’agosto 2024 che fungerà da quadro strategico, analizzando in secondo luogo il settore giuridico e infine il settore strategico. L’approfondimento si conclude degli spunti riflessivi sul lungo-medio periodo.
Quadro generale, l’escalation tra Iran – Israele del 2024
Col foresight dell’agosto 2024 si intendeva anticipare gli scenari che si sarebbero potuti delineare in seguito all’eliminazione dei vertici di Hezbollah in Libano tramite l’utilizzo dei cercapersone. In primo luogo però, l’uccisione mirata di due vertici della rete imperiale iraniana – Fuad Shukr (Hezbollah) e Ismail Haniyeh (Hamas) – ha inaugurato un’escalation che rompe la paralisi strategica in cui Israele si trovava dal 7 ottobre 2023, quando ha subito un attacco definito asimmetrico-terroristico. Questo tipo di aggressione – condotta da civili armati e priva di bersagli legittimi, eccezion fatta di una caserma – ha posto Israele in una trappola comunicativa, operativa e giuridica: da un lato obbligata a ripristinare parimenti la deterrenza e a difendersi in contesti urbani complessi, dall’altro esposta a delegittimazione internazionale e logoramento reputazionale.
Il cuore della questione rimane la strategia imperiale dell’Iran, che opera per mezzo di proxies armati e asimmetrici (Hamas, Hezbollah, Houthi, detti anche “le 3 H”), estensioni territoriali de facto di Teheran nei territori sovrani di altri Stati. Queste entità militarizzano le popolazioni locali, disarticolano le istituzioni e agiscono come veicoli della guerra indiretta iraniana. Israele, pur eccellente nelle operazioni contro-asimmetriche, non può sostenere a lungo questo tipo di guerra, che è dispendiosa, impopolare e demograficamente insostenibile.
L’escalation dell’estate 2024 rappresentava dunque una scelta strategicamente necessaria, i cui risvolti stanno culminando ora. Aprendo un nuovo teatro, Israele ha portato il conflitto sul piano simmetrico e convenzionale, dove può sfruttare la propria superiorità tecnologica, dottrinale e diplomatica. Così facendo, ha costretto l’Iran a uscire allo scoperto, abbandonando il comfort della delega ai proxies. Tuttavia, l’Iran, non potendo sfruttare il proprio vantaggio numerico in un confronto terrestre in quanto non confinante con Israele, risulta costretto alla scelta tra:
- intensificare il supporto indiretto alle milizie, rischiando di perdere efficacia e deterrenza;
- rispondere con operazioni simboliche, esponendosi al logoramento reputazionale;
- intraprendere un confronto diretto per cui non è preparato.
In qualsiasi scenario, il vantaggio strategico si sposta a favore di Israele, che dimostra di aver abilmente rotto lo schema della guerra per procura. Inoltre, questa fase obbliga anche gli attori internazionali – in particolare gli alleati occidentali – a uscire dall’ambiguità, prendendo una posizione netta di fronte a un possibile tentativo iraniano di saturare il sistema di difesa israeliano (Iron Dome).
L’escalation in questo caso non si configura solo come legittima difesa contro una rete irregolare, ma come manovra tattica e geopolitica volta a ristabilire un equilibrio più gestibile e meno manipolabile. Nel contesto attuale, essa appare inevitabile; a maggior ragione se Israele intende mantenere l’iniziativa, evitare la dissoluzione reputazionale e interrompere la spirale destabilizzante imposta dall’Iran tramite le sue milizie parastatali.

2. Dimensione giuridica internazionale
Negli ultimi giorni ha preso piede l’affermazione secondo cui il gesto israeliano prima e americano poi siano state “aggressioni ingiustificate totalmente illegali”. Al fine di comprendere se questa posizione abbia fondamento bisogna spacchettare l’argomento.
Innanzitutto, è necessario distinguere tra la liceità di un’azione militare e il fatto che essa sia ingiustificata – o, più precisamente, ‘non provocata’. Infatti, la liceità di un intervento militare dipende in larga misura dalla presenza di una giustificazione, come ad esempio una provocazione subita. Partiamo quindi da quest’ultima.
Intanto, perché la provocazione è importante al fine di determinare se un attacco militare sia lecito o meno? Risposta semplice: l’uso della forza è tutelato solo ed esclusivamente ai fini difensivi, pertanto la provocazione costituisce l’elemento cardine che attiva il diritto di legittima difesa come condicio sine qua non. Premettendo però che la natura del diritto internazionale non sia pattizia ma naturale, cioè consuetudinaria, torna comunque utile schiarirsi le idee su cosa dica ciò che più si avvicina ad una “Costituzione” a livello internazionale, cioè la Carta della Nazioni Unite.
All’Articolo 2 paragrafo IV la Carta sancisce il divieto d’uso della forza non solo in forma diretta, ma anche indiretta. Infatti, così com’è vietata l’aggressione militare in sé è vietato egualmente anche il ricorso alla minaccia d’uso della forza militare, sia in prima persona quanto in terza persona.
Testualmente:
“I Membri devono astenersi nelle loro relazioni internazionali dalla minaccia o dall’uso della forza, sia contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di qualsiasi Stato, sia in qualunque altra maniera incompatibile con i fini delle Nazioni Unite”*
Da questo articolo si ricavano due divieti, ovvero il divieto alla minaccia da un lato e il divieto all’aggressione dall’altro. Di conseguenza, si può affermare che la giurisprudenza internazionale ha largamente riconosciuto anche l’aspetto indiretto come soggetto a tale divieto. Ciò comporta che non solo non si possa minacciare o aggredire militarmente un altro Stato, ma è anche fatto divieto di sponsorizzare gruppi armati che operano in tal senso.
Gruppi armati di tale categoria ve ne sono oggi svariati, tutti facenti capo all’Iran, tra cui Hamas, Hezbollah e gli Houthi. La responsabilità del loro operato è giuridicamente ricadente sull’Iran, sia in quanto mandante, sia in quanto unica persona giuridica. Sia giuridicamente che strategicamente, non si può e non si deve riconoscere autonomia propria alle azioni dei proxies iraniani, in quanto guidati direttamente da Teheran.
Per comprendere come l’operato dei proxies (le “3 H”) ricada sul mandante (Iran), va analizzata la sentenza della Corte Internazionale di Giustizia nel caso “Nicaragua vs USA”. In tale sentenza si dichiara la colpevolezza degli USA non per avere aggredito il Nicaragua in prima persona, bensì per averlo aggredito indirettamente tramite la sponsorizzazione e il finanziamento di gruppi armati ribelli.
Testualmente:
“The United States, in recruiting, training, arming, equipping, financing, supplying and otherwise encouraging, supporting, aiding, and directing military and paramilitary actions in and against Nicaragua, has violated and is violating its express charter and treaty obligations to Nicaragua” **
La Corte Internazionale di Giustizia ha infatti stabilito che gli Stati Uniti hanno violato il divieto di uso della forza sancito dall’articolo 2, paragrafo IV, della Carta ONU, intervenendo nel Nicaragua armando, finanziando, equipaggiando e supportando gruppi paramilitari (i cosiddetti “Contras”) che agivano contro il governo nicaraguense. La Corte ha ritenuto che tale sostegno ai gruppi paramilitari costituisse un uso illegittimo della forza indiretta, rappresentante un intervento armato non autorizzato in territorio straniero, incompatibile con i fini delle Nazioni Unite e con il diritto internazionale consuetudinario.
Operiamo quindi uno schema per comprendere quali siano i comportamenti illeciti:
Divieto di minaccia | |
Diretto* | Indiretto** |
Divieto di uso della forza | |
Diretto* | Indiretto** |
Appuriamo quindi come tutti e quattro i divieti siano stati violati dall’Iran: le minacce dirette sono all’ordine del giorno da decenni, a Teheran è addirittura presente uno schermo pubblico con un “countdown” per l’augurata distruzione di Israele. Gli esempi si sprecano. Indirettamente, le stesse minacce vengono perpetrate anche dai proxies iraniani, anche qui gli esempi si sprecano.
Per quanto riguardo invece l’uso della forza diretto, basti pensare all’attacco dell’estate scorsa dall’Iran contro Israele, per l’uso della forza indiretto basti guardare all’operato degli Houthi contro Tel Aviv, agli Hezbollah ormai da decenni e ultimo ma non meno importante l’attacco del 7 ottobre per mano di Hamas.
L’Iran ha – senza esagerazione alcuna – violato tutti e quattro i divieti internazionali sull’utilizzo della forza. A ciò si aggiunge l’aggravante della consistenza storica: l’Iran rappresenta storicamente una minaccia per Israele – per motivi esclusivamente ideologici e razziali – da diversi decenni ormai e non si può quindi inquadrare la questione come un bisticcio casuale del momento. E’ difficile parlare anche di pre-emptive strike (detta difesa preventiva) in senso stretto, in quanto le ostilità sono aperte già da anni. Un pre-emptive strike si ha tra due attori che ancora non sono in guerra.
Ergo: l’affermazione iniziale secondo cui l’attacco israeliano rappresenti una aggressione ingiustificata (unprovoked aggression) rasenta quindi, senza margine di opinabilità, il demenziale.
Vi è però tuttavia un problema: la “causale”.
Ogni azione militare deve essere legittimata e la legittimazione ufficiale è quella che poi regge davanti al diritto internazionale e davanti al consensus internazionale. Se finora nel nostro discorso c’è infatti stata una convergenza tra diritto e strategia, qua le due dimensioni prendono strade diverse. Infatti, se per la strategia la forma conta quanto un tre di picche, giuridicamente invece la forma ufficiale di una azione militare ricopre un ruolo importante.
Israele ha infatti sostenuto che l’attacco contro l’Iran abbia come obiettivo principale la distruzione della capacità nucleare della Repubblica Islamica.
Ma l’Iran non ha armi atomiche e non ci sono prove che le stia sviluppando. E questo è giuridicamente un gran problema poiché riecheggia un precedente: il noto Colin Powell sventolare le finte prove di armi di distruzione di massa all’Assemblea generale dell’ONU per legittimare l’intervento in Iraq. Anche lì, il problema fu la causale.
Ma un culto della morte come quello degli Ayatollah, può avere accesso all’arma atomica? Chi siamo noi per poter pretendere diversamente?
Sul perché proprio al povero ayatollah – progressista, laico e pacifico – debbano essere vietate le armi atomiche c’è un consensus universale: tuttavia sta passando negli ultimi giorni la vulgata secondo cui dietro il “Niet” all’atomico iraniano vi sia il solito capriccio Occidentale. E’ utile invece ricordare come tale divieto imposto all’Iran sia “bipartisan”, condiviso infatti in sede ONU anche da Russia e Cina. Apparentemente neanche gli amici dell’Iran sono convinti del fatto che il possesso di 400kg di uranio arricchito al 60% – quando per l’energia nucleare civile è sufficiente il 4% – abbia solamente finalità pacifiche. Va inoltre ricordato un parere qua condiviso da chi scrive, secondo cui l’Iran non sarebbe vincolabile a nessuna forma di MAD.
La Risoluzione 2231/’15 UNSC (binding), cioè quella alla quale si sta facendo riferimento, vide un voto unanime di Cina, Francia, Russia, Regno Unito, USA, Angola, Chad, Cile, Giordania, Lituania, Malaysia, Nuova Zelanda, Nigeria, Spagna e Venezuela. Non si tratta quindi un capriccio Occidentale.
Tralasciando quindi la sostanza, la forma resta giuridicamente rilevante, in quanto apre a nuovi scenari dirompenti sotto il profilo giuridico. Potrebbe infatti delinearsi un futuro “effetto Kosovo”. Con tale termine faccio riferimento alla rottura, nel 1999, dell’Opinio iuris di integrità statuale come principio universale: al seguito di tale rottura vi furono effetti dirompenti nelle relazioni internazionali. Infatti, l’aggressione NATO alla Serbia nella primavera 1999 in protezione dei kosovari ha spianato la strada alla Russia per giustificare i propri interventi in Georgia quanto in Ucraina.
Ma la vera domanda qua è un’altra: perché Israele ha usato la giustificazione dell’arma nucleare per la propria operazione militare?
Abbiamo visto che l’Iran ha violato tutte le norme sull’uso della forza, dando quindi pieno diritto ad Israele di difendersi e, conoscendo molto bene l’importanza del dare una giusta causale alle operazioni militari, è lecito chiedersi perché Israele abbia scelto di percorrere proprio l’irta strada anti-arma atomica come mezzo di legittimazione delle proprie azioni. Fare riferimento a tutti i precedenti iraniani era già ampiamente sufficiente per rientrare nella liceità internazionale, perché voler alzare l’asticella inutilmente esponendosi così a critiche varie?
Qua si esce dal campo giuridico e si entra nel campo prettamente strategico, nello specifico nella meccanica di internazionalizzazione e nazionalizzazione del conflitto.
3. Dimensione strategica
Internazionalizzazione e nazionalizzazione dei conflitti sono due dinamiche proprie delle relazioni tra attori internazionali, statuali e non. Per internazionalizzazione del conflitto si intendono le misure militari, mediatiche, diplomatiche e commerciali volte ad allacciare i propri interessi specifici a quelli di un numero maggiore possibile di attori esterni. Nazionalizzare un conflitto è invece l’opposto, cioè cercare di recidere gli interessi di quanti più attori esterni possibile dal conflitto.
Cerchiamo di comprenderne il significato con degli esempi. In uno scontro tra un attore forte e uno debole, quello forte cercherà di tenere per sé la gestione del conflitto così da non dover subire interferenze esterne che possano compromettere il vantaggio di forza; mentre l’attore più debole, in virtù della propria minorità, cercherà aiuto all’esterno e per farlo escogiterà qualsiasi mezzo per far credere agli attori terzi che anche i loro interessi sono in gioco. Sono due forze perennemente contrapposte e dipendono sempre dal rapporto di forza relativo.
I kosovari nel 1997, non potendo vincere da soli contro la Jugoslavia, hanno cercato prima col pacifismo di Rugova e poi con i massacri dell’UCK di attirare su di sé le attenzioni degli Occidentali così da farli intervenire, cambiando quindi l’equilibrio per loro svantaggioso. La Jugoslavia di Milosevic di contro invece ha cercato sempre di sminuire la questione kosovara, etichettandola come “questione nazionale” al fine di evitare l’intervento di altre forze. Idem si può dire di Zelensky che, in quanto attore più debole rispetto alla Russia, cerca in ogni modo di internazionalizzare il conflitto così da non essere sopraffatto da Mosca. Quando Kiev parla di rischi per l’intero Occidente legati alla Russia, altro non sta facendo che allacciare un interesse nostro ad un interesse loro. Ciò non toglie ovviamente veridicità alla questione e alle fondatezza delle denunce ucraine.
La stessa logica vale per Israele. Lo Stato ebraico nella questione di Gaza ha cercato (con scarsi risultati) di nazionalizzare il conflitto per evitare appunto interferenze esterne, ma con l’Iran la questione è diversa. Pur essendosi dimostrato un gigante dai piedi d’argilla, le cui difese aeree sono collassate in pochi minuti, l’Iran è comunque una minaccia consistente per Israele, incapace di neutralizzare da solo i centri strategici della Repubblica Islamica.
Motivo per cui si è tirato in ballo un motivo internazionale omnipartisan quale gli armamenti nucleari già trattato nella suddetta Risoluzione 2231.
Ma oltre che omnipartisan tale “causale” è un elemento cruciale nell’agenda delle grandi potenze, in primis per gli USA, che a differenza di Cina e Russia che pur si oppongono al nucleare iraniano, sono alleati storici di Israele. Si può per certi versi sostenere che Israele abbia imposto le condizioni tali per cui Washington fosse obbligato ad intervenire. Motivo per cui è consequenziale comprendere la fretta con la quale Washington ha immediatamente cercato un cessate il fuoco: non è immediatamente una guerra americana, lo è nella misura minima in cui sono chiamati in causa per i motivi sopra citati.
Qui entra in gioco un discorso differente sulla liceità dell’intervento americano. Formalmente, contro gli USA, l’Iran ha trasgredito molto meno rispetto a quanto abbia invece trasgredito contro Israele. Pur essendo le posizioni strategiche di USA e Israele affini, sul piano giuridico sono distinte: contro l’Iran si delinea pur sempre l’illecito di minaccia contro gli USA, ma è ovviamente una posizione molto più debole rispetto a quella israeliana. Se quindi sull’azione militare israeliana c’è poco da interpretare, su quella americana si possono aprire svariate interpretazioni controproducenti per il futuro.
4. Conclusioni e considerazioni finali
L’anno 2025 è forse più di tutti l’anno dell’inflazione terminologica: tra un genocidio che non esiste e un utilizzo a sproposito del termine “geopolitica” per indicare qualsiasi cosa riguardi gli esteri, la parola del momento sembra essere Terza Guerra Mondiale. Bene, permettiamoci, visto il successo dei precedenti, di avanzare un altro foresight: non ci sono le condizioni strutturali per una terza guerra mondiale. Forse il termine più corretto sarebbe Seconda Guerra Fredda, e quella è senz’altro già iniziata quasi vent’anni fa col crollo del 2008 che ha aperto la strada a “ordini mondiali alternativi”.
Le guerre mondiali sono l’apoteosi dell’internazionalizzazione dei conflitti come prima argomentati e si scatenano poiché, tra i vari motivi, le alleanze fungono da fattore virale. La contrapposizione tra alleanze senza potere di deterrenza effettivo crea la struttura ideale per l’espansione quasi virale dei conflitti. Ad oggi non abbiamo nessuna delle due condizioni sopra citate. Infatti, non ci sono alleanze contrapposte bensì una sola Alleanza (cioè la NATO) senza una controparte; come secondo fattore si ha la deterrenza: se nelle guerre mondiali era assente il fattore della deterrenza, adesso è largamente presenza grazie agli arsenali atomici.
I due eventi di portata storica che abbiamo qui analizzato, Rising Lion e Midnight Hammer, non sono il principio di una terza mondiale, ma sono il culmine di una seconda guerra fredda che cerca di riassestare gli equilibri.
In quanto componenti comunque di una guerra, seppur fredda, costituiscono sempre elementi i cui frutti potrebbero in futuro portare a conflitti di portata maggiore. Ma, finché non viene scalfita la deterrenza e finché non si delineano Alleanza militari alternative alla NATO, il pericolo di guerra calda a livello globale, può per adesso dirsi scongiurato.
Gli effetti concreti ad avviso di chi scrive saranno:
1. Una maggiore forza di deterrenza Occidentale, preziosa in un momento di netto declino della nostra sfera di influenza.
2. Un nuovo debito futuro in termini di modifiche sostanziali della Opinio Iuris internazionale, fattore questo che potrà avere risvolti bollenti.
3. Il futuro della Persia: vi sono dubbi concreti sul futuro dell’Iran, in quanto viene confermata per ora la regola qua sempre sostenuta, ovvero che qualsiasi governo per quanto oppressivo gode in misura variabile del consenso popolare. Ancora infatti, nonostante la tabula rasa dei vertici islamisti fatta da Israele, la società civile iraniana stenta ad ergersi concretamente e a prendere il posto degli Ayatollah. Se l’opposizione non agisce in fretta si chiuderà la finestra temporale utile entro la quale sovvertire la repubblica e il conflitto rischierà di cristallizzarsi, con conseguente massacro dei dissidenti e collaboratori.
4. Se l’Occidente farà dietrofront avrà solo sprecato un’occasione e avrà infastidito il can che dorme.

Per chiudere, vista l’inflazione di termini, mi permetto una banale analogia con la seconda guerra mondiale. Dmitry Medvedev ha recentemente sostenuto che “dal momento che l’Iran è stato aggredito, adesso svilupperà la bomba atomica”, sottintendendo che se un giorno l’Iran dovesse fabbricare armi nucleari sarà, tanto per cambiare, colpa degli Occidentali. E qui l’analogia con la seconda guerra mondiale: siamo forse contenti delle milioni di vite che la seconda guerra mondiale ha portato con sé? Se fosse stato possibile evitarla, non lo avremmo tutti fatto? Non avremmo fermato Hitler prima che si facesse troppo tardi? A parole, una persona razionale, risponderebbe di sì. Ma ahimé non è così. Quando la situazione viene posta in termini reali, anche il più fervente anti-nazista cambia subito registro.
Il fattore che rese Hitler dominante e capace di tanta distruzione fu l’appeasement, il pacifismo di Chamberlain, una delle più grandi piaghe del Novecento. Al serpente va mozzata la testa prima che morda, non dopo. Dalla gogna si può uscire, dalla bara no.
Se Chamberlain, anziché mostrare l’altra guancia ad Hitler, fosse intervenuto repentinamente oggi non avremmo avuto quella guerra disastrosa. Ma non avremmo neanche saputo che ci sarebbe stata e anche all’epoca avremmo avuto i pacifisti, finti o veri che siano, che avrebbero denunciato cotanta cattiveria nei confronti del povero pittore di acquarelli austriaco. Oggi dobbiamo assolutamente evitare di creare le condizioni per la guerra e poi piangerne i morti.
Purtroppo questa semplice lezione sembra non essere stata imparata: la storia è ciclica poiché la convinzione che essa sia lineare ed irripetibile ci porta ciclicamente a commettere gli stessi errori.
L’approfondimento che avete letto è pienamente sottoscritto dall’associazione Studenti per Israele