Escalation militare Israele-Iran, la crisi che ridefinisce il Medio Oriente

iran israele
Donatello D'Andrea
13/06/2025
Frontiere

La notte tra giovedì e venerdì ha segnato un punto di non ritorno nelle relazioni tra Israele e Iran. Con un’operazione militare ad alta intensità, Israele ha colpito diversi siti nucleari e missilistici strategici in territorio iraniano, segnando l’inizio di una nuova fase conflittuale nella regione. Secondo quanto riportato da fonti ufficiali iraniane, l’attacco ha provocato l’uccisione di figure apicali del sistema di sicurezza e difesa iraniano: Hossein Salami, comandante delle Guardie Rivoluzionarie, e Mohammad Bagheri, capo dell’esercito regolare. Si tratta di perdite simbolicamente e operativamente devastanti per Teheran, con potenziali effetti a catena sulla tenuta interna del regime.

L’operazione “Rising Lion”

L’operazione israeliana non è stata improvvisata: secondo numerose fonti di intelligence occidentali, era parte di un piano operativo sviluppato da tempo, pronto a essere attivato qualora fossero confermate le informazioni sul rapido avanzamento del programma nucleare bellico iraniano. A dare il via libera è stata una recente risoluzione dell’AIEA che, per la prima volta in vent’anni, ha condannato ufficialmente l’Iran per violazioni agli obblighi di non proliferazione. I livelli di arricchimento dell’uranio al 60%, come dichiarato nel rapporto, e l’accesso a materiale sufficiente per nove testate nucleari, hanno accelerato una dinamica già in corso: la rottura della deterrenza ambigua.

Israele, per bocca del premier Benjamin Netanyahu, ha definito i siti colpiti una “minaccia esistenziale“, giustificando l’azione come un “attacco preventivo necessario“. La dottrina israeliana della deterrenza si è così trasformata in azione preventiva, basata sull’assunto che l’escalation nucleare iraniana non potesse più essere contenuta con strumenti diplomatici. In questo quadro, la comunicazione pubblica israeliana si è allineata a una logica di framing emergenziale: la narrazione dell’inevitabilità.

L’Iran, da parte sua, ha reagito con dichiarazioni di rappresaglia imminente. E la ritorsione è arrivata: più di 100 droni sono stati lanciati contro Israele, in quella che sembra la prima fase di una risposta strutturata. Tuttavia, i segnali provenienti da Teheran indicano che la leadership iraniana sta cercando di calibrare la risposta: bilanciare l’esigenza di conservare la propria credibilità strategica senza precipitare in una guerra totale che potrebbe mettere a rischio la tenuta del sistema politico interno.

Israele attacca, l’equilibrio si spezza: motivazioni e scenari della nuova crisi

L’operazione militare israeliana del 12 giugno contro obiettivi strategici in Iran rappresenta la più radicale riconfigurazione dell’equilibrio mediorientale dall’invasione americana dell’Iraq nel 2003. Non si tratta di un’escalation accidentale né di una dimostrazione di forza priva di progettualità: si è trattato dell’attuazione di un piano strategico integrato, preparato da tempo e calibrato secondo una logica di deterrenza anticipatoria.

La decisione di colpire nasce in un contesto dove le opzioni strategiche di Israele erano ormai limitate. Il fallimento dei negoziati del JCPOA, l’impossibilità di riportare Teheran entro i binari del diritto internazionale e – soprattutto – la risoluzione formale dell’AIEA che ha certificato la violazione degli obblighi sulla non proliferazione hanno costituito un tipping point. Il livello di arricchimento dell’uranio al 60%, la quantità di materiale fissile sufficiente per costruire nove testate nucleari e l’opacità dei siti militari nucleari rappresentano un quadro intollerabile per l’intelligence strategica israeliana, che ha giudicato imminente il passaggio dell’Iran allo status di potenza nucleare latente.

L’attacco, dunque, si configura come preventive strike, teso a degradare le capacità tecnico-industriali del programma iraniano e a interrompere il ciclo di legittimazione interna che il regime aveva costruito proprio attorno al progetto nucleare. Per Teheran, quel programma non è soltanto uno strumento di proiezione esterna, ma un architrave simbolico del potere interno, in grado di rafforzare la narrazione di autonomia, orgoglio e autodifesa contro l’Occidente. Colpirlo significa aggredire un elemento identitario, con potenziali effetti anche sulla tenuta del consenso domestico e sull’egemonia delle Guardie Rivoluzionarie, private dei loro vertici militari e tecnoscientifici in un colpo solo.

La tattica comunicativa israeliana

L’elemento di discontinuità sta anche nella tattica comunicativa israeliana, che ha accompagnato l’operazione con una narrazione pubblica netta: Netanyahu ha parlato di “minaccia esistenziale” e ha anticipato la possibilità di ulteriori attacchi. È una rottura della prassi della ambiguity strategy che aveva finora contraddistinto Israele nelle operazioni contro il nucleare iraniano. Oggi si è scelto di sovrapporre comunicazione e operazione, per massimizzare l’impatto psicologico.

Le reazioni non si sono fatte attendere. Teheran ha risposto con il lancio di oltre 100 droni armati, un chiaro segnale che si è entrati in una fase cinetica del conflitto, con rischi tangibili di escalation su scala regionale. Le modalità della risposta indicano che la ritorsione non sarà simbolica né limitata. I proxy regionali dell’Iran – Hezbollah in Libano, le milizie sciite in Siria e Iraq, gli Houthi nello Yemen – rappresentano un dispositivo militare distribuito, pronto ad attivarsi su più fronti, anche asimmetricamente. SEGUI LA DIRETTA



Il contesto logistico e geografico aggrava la situazione. Lo Stretto di Hormuz, per esempio, può diventare un choke point strategico. Il solo timore di un’interruzione degli scambi commerciali ha già avuto effetti sistemici sul mercato energetico, segnalando la vulnerabilità dell’economia globale di fronte a crisi regionali ad alta intensità. La percezione del rischio politico in Medio Oriente è oggi ai massimi dal 2011.

Diplomazia spiazzata: falliscono i colloqui Iran-USA

Sul piano diplomatico, il colpo di scena ha spezzato anche un fragile equilibrio negoziale. Proprio in questi giorni, funzionari statunitensi e iraniani avrebbero dovuto incontrarsi in Oman per un nuovo round di dialoghi informali sul nucleare. L’attacco ha reso quei negoziati obsoleti ancor prima di cominciare. In questo quadro, il ruolo degli Stati Uniti si conferma ambiguo: il presidente Donald Trump ha affermato di essere stato informato in anticipo, ma ha specificato che gli USA non sono coinvolti militarmente. Una formula che ha l’obiettivo di mantenere la plausible deniability tipica della strategia trumpiana, utile a tutelare l’interesse nazionale senza compromettere il capitale politico domestico.

Il comportamento di Washington rappresenta, in sé, una discontinuità narrativa. Gli Stati Uniti, pur conservando il primato strategico globale, non agiscono più come architrave della sicurezza regionale. La ridefinizione trumpiana della politica estera, orientata al transactionalism e alla selective engagement, ha prodotto un vuoto di guida strategica, che altri attori – Israele in primis – stanno riempiendo secondo logiche unilaterali.

Il quadro che ne emerge è quello di una rottura sistemica dell’equilibrio regionale. La deterrenza convenzionale è stata sostituita da una deterrenza attiva, nella quale la dissuasione è subordinata alla capacità di colpire per primi.

Se l’Iran deciderà di reagire con forza, è possibile una regionalizzazione del conflitto, con effetti destabilizzanti su Siria, Iraq, Libano e sul Golfo Persico. Se invece sceglierà una risposta differita e indiretta, entreremo in una fase di logoramento strategico permanente, dove l’instabilità sarà strutturale e normalizzata.

In ogni caso, il paradigma mediorientale è stato riscritto. L’era della pazienza strategica, dei negoziati intermittenti e delle ambiguità negoziali è finita. Ora si entra in una fase in cui le parole contano meno delle testate, e in cui l’egemonia comunicativa non basta più a sostituire la superiorità operativa.

Trump, l’America e l’interregno strategico

Il comportamento degli Stati Uniti, e in particolare del presidente Donald Trump, nel contesto dell’attacco israeliano all’Iran è paradigmatico di un disallineamento strategico evidente tra Washington e Tel Aviv. Trump ha dichiarato pubblicamente di aver ricevuto informazioni preventive sull’operazione, pur chiarendo che gli USA non hanno partecipato militarmente. Questo atteggiamento è una ambiguità funzionale intenzionale: permette agli USA di non esporsi a rappresaglie, conservando tuttavia un margine di influenza e controllo politico sulle dinamiche regionali.

Nei giorni precedenti all’attacco, Trump aveva invitato Netanyahu ad astenersi, affermando che “potrebbe benissimo succedere” un conflitto, ma auspicando che si potessero salvaguardare i negoziati. Il risultato è una narrazione sofisticata: “non sapevo tutto, ma sapevo abbastanza”. Un mix di deniability operativa e condivisione strategica simbolica, che consente agli Stati Uniti di ritirarsi formalmente dal conflitto e al contempo di mantenere un asset di governance retorica sul piano internazionale.

Il contesto politico interno all’amministrazione Trump era già orientato verso un disimpegno selettivo dal Medio Oriente. I negoziati USA–Iran in Oman, programmati per il 15 giugno, erano percepiti come l’ultima opportunità di una svolta diplomatica. L’attacco israeliano ne ha tuttavia determinato la sospensione. In questo senso, il ritorno alla logica dell’hard power, con il taglio delle aperture della soft diplomacy, configura una Washington che segue la strategia di evitare l’escalation mantenendo una porta aperta solo a sufficienza.

Le conseguenze di questa scelta sono molteplici e profonde:

  • Ristrutturazione geografica della sicurezza regionale: l’operazione israeliana attiva una catena di risposta che coinvolge i proxy iraniani in Libano (Hezbollah), Siria, Yemen. Si apre una fase di conflitto multi-frontale che rischia di estendere la guerra in diversi teatri.
  • Impatto energetico globale: l’Iran potrebbe chiudere o perturbare lo Stretto di Hormuz, aumentando la pressione sui prezzi del petrolio e introducendo incertezza economica sistemica nei mercati.
  • Frattura della leadership multilaterale: il precedente di un attacco unilaterale senza mandato ONU convalidato erode la fiducia nella governance collettiva e incoraggia future operazioni preventive di altri attori.
  • Ribaltamento nella deterrenza nucleare: l’attacco dimostra che anche un programma potenzialmente nucleare può essere neutralizzato militarmente. Ne segue una crisi di credibilità del deterrente nucleare iraniano, ma allo stesso tempo si instaura una nuova piattaforma di deterrenza preventiva, il cui successo o fallimento potrà disegnare i futuri confini del potere nella regione.

In definitiva, l’amministrazione Trump sta orchestrando un interregno strategico: formalmente mantiene la rotta della diplomazia, mentre operativamente lascia spazio a Israele per ridefinire i confini della sicurezza regionale. Il messaggio americano è chiaro: evitiamo l’escalation diretta, ma non interrompiamo la dissuasione. Questo approccio ibrido, di disimpegno attento, pone gli USA in una posizione di direttore invisibile, lasciando ad altri il compito di agire mentre si mantengono in panchina, schierati ma non in campo.

Il peso comunicativo del potere: narrativa, deterrenza e assenza diplomatica

Nel conflitto contemporaneo, la comunicazione strategica non è più accessoria: la condiziona, la precede e in molti casi la sostituisce. L’attacco israeliano è stato accompagnato da una narrazione esistenziale, studiata per orientare l’opinione pubblica interna ed esterna prima ancora dell’impatto cinetico. Il premier Netanyahu ha parlato di una “minaccia nucleare incombente” e di una “ultima finestra utile” per intervenire, instaurando un linguaggio da emergenza permanente. Questo effetto “morale shock” serve a neutralizzare l’eventuale condanna internazionale, costringendo gli attori esterni – primo tra tutti gli Stati Uniti – a mostrare un silenzio complice o a fronteggiare l’accusa di tradimento di fronte elettorati fragili e polarizzati.

Sul versante opposto, l’Iran appare in ritardo sulla narrazione. La morte di Salami e Bagheri è stata declinata attraverso una retorica di martirizzazione religiosa, con l’obiettivo di rafforzare il consenso interno. Tuttavia, quel tipo di appeal, basato su narrative eroiche tradizionali, non riesce a valere a livello internazionale. Il regime sembra essersi preoccupato più del controllo cognitivo interno – pura controllo dei sentimenti domestici – che del messaggio globale. A livello esterno, l’efficacia comunicativa dell’Iran resta limitata, perché non ha saputo svincolare la narrazione simbolica lealista dalla discontinuità diplomatica imposta dall’attacco israeliano.

Nel frattempo, la comunicazione americana assume i tratti dell’ambiguità mimetica. Il presidente Trump ha dichiarato di essere stato “informato” in anticipo, ma ha chiarito che gli USA non partecipano militarmente, offrendo un messaggio attentamente calibrato. La dichiarazione statunitense cerca di segnalare presa d’atto del ruolo strategico americano senza assumersi responsabilità dirette, in una modalità che potremmo definire nebulosa operativa. Questo approccio consente agli Stati Uniti di rimanere in posizione di potere – se necessario – lasciando però all’attore regionale la gestione del conflitto.

Il ruolo ineffabile della diplomazia mondiale

Nel frattempo, la diplomazia formale mondiale è silente. L’Unione Europea ha prodotto un comunicato generico che insiste su “moderazione” e “necessità del dialogo”, linguaggio politicamente corretto ma privo di specificità strategica o di presa di posizione politica. La sua assenza dal racconto conferma l’incapacità dell’UE di agire come soggetto strategico autonomo nel Mediterraneo. Il silenzio europeo non è innocuo: rafforza la narrativa israeliana e crea un vuoto che nessuno – né ONU né potenze terze – sembra disposto a colmare. È un’autoesclusione comunicativa dalla gestione globale della crisi.

Il vero problema è di tipo narrativo. Manca una “narrazione architettonica”, ovvero una cornice interpretativa in grado di agganciare l’attacco israeliano a una visione sistemica: un quadro che colleghi diplomazia, diritto internazionale, sicurezza nucleare e governance multilaterale. Israele si limita a giustificare un gesto immediato; l’Iran brandisce simboli religiosi attraverso una retorica rituale; gli USA procedono per sottrazione, neutralizzando la loro storicità regionale con un linguaggio da non intervenire senza compromettersi. In questo vuoto, mancano parole chiave come “prevenzione multilaterale”, “gestione normata della crisi” o “governo globale della proliferazione”.

La conseguenza è che il conflitto diventa una sequenza di atti atomizzati: bombe, droni, minacce, misure economiche. Ogni mossa, se priva di una narrazione d’insieme, perde potere politico-strategico. La comunicazione diventa fase successiva all’azione, anziché anticiparla o governarla. Quando la narrazione è assente, rimangono solo atti – e atti senza racconto sono forme di influenza effimera e difficilmente replicabile.

Dopo il 12 giugno: un nuovo paradigma strategico globale

L’escalation israelo-iraniana è quindi frutto di un sistema comunicativo opaco e deconnesso: i protagonisti agiscono, ma nessuno coordina i significati. La politica internazionale torna cinetica, senza meta-narrazioni condivise, e questo indebolisce le strategie preventive. In un mondo che richiede soggetti a vocazione narrativa, la carenza di una strategia dell’influenza integrata lascia spazio a un solo “governo” del conflitto: l’effetto immediato della bomba.

La notte del 12 giugno non ha segnato solo un’escalation locale, ma l’inizio di un nuovo paradigma strategico globale: la deterrenza nucleare si è trasformata da tabù statica in minaccia dinamica — una deterrenza preventiva che trascende la semplice armamentaria per affermare la capacità di colpire prima e meglio. Israele ha voluto insomma dichiarare: “posso intervenire senza consenso multilaterale, e garantirmi la priorità strategica”.

Questa evoluzione ha innescato una rottura radicale di equilibri, su più livelli. In primo luogo geopolitico: l’Iran si trova costretto a decidere se accettare la resa strategica o reagire con escalation — rischiando di trasformare tutta la regione mediorientale in un campo di battaglia multi-frontale. Le ripercussioni potenziali sul piano militare sono amplificate dalla rete di proxy iraniani in Libano, Siria, Iraq e Yemen, che agiscono come moltiplicatori di crisi. Se scoppiasse un conflitto su più fronti, l’instabilità sistemica diventerebbe inarrestabile, con il costo politico e umano che ne deriverebbe.

Sul piano operativo, cambia la geografia della guerra: lo Stretto di Hormuz e le rotte navali nel Golfo diventano potenziali obiettivi, con impatti immediati sul mercato energetico globale. Un conflitto prolungato metterebbe sotto pressione la sicurezza delle forniture, con una ricaduta sui prezzi del petrolio e sull’economia europea, già fragile.

La definitiva archiviazione del multilateralismo

A livello istituzionale e simbolico, la crisi sancisce il crollo della governance multilaterale: i meccanismi ONU, il JCPOA, l’AIEA — tutti strumenti intermediari destinati a evitare il ricorso alle armi — vengono superati dall’azione militare unilaterale. Si instaura così un nuovo ordine dove l’hard power e la narrativa unilaterale prevalgono sull’architettura diplomatica condivisa.

Gli Stati Uniti, con Trump in testa, restano spettatori calibrati: presentati come informati e consenzienti, ma distanti dall’azione diretta. La loro politica si muove nella zona grigia del coinvolgimento simbolico, lasciando a Israele la gestione operativa, ma mantenendo margini di controllo strategico. È un disimpegno attento, che annuncia un nuovo modello americano: meno presenza materiale, più opera di facciata.

Sono l’Unione Europea e le sue istituzioni a pagare un prezzo elevato in termini di credibilità strategica. Dinanzi a uno scenario di escalation militare con implicazioni globali, la comunicazione ufficiale di Bruxelles si è limitata a formule generiche di “moderazione” e “dialogo”, prive di qualsiasi potenziale performativo. Nessuna iniziativa concreta di mediazione politica, nessuna proposta di de-escalation, nessun tentativo di costruire una cornice narrativa coerente entro cui interpretare l’attacco e orientare la risposta internazionale. Un silenzio che non è neutralità, ma autoesclusione attiva dalla scrittura della crisi.

La necessità di narrazioni condivise nel nuovo mondo geopolitico

Nel nuovo anno zero della geopolitica post-2025, la parola conserva un peso enorme — ma solo se ancorata a una visione e a un disegno strategico. Oggi dominano i sistemi d’arma, i vettori d’attacco, le scelte unilaterali: in questo contesto, una narrazione frammentata o in ritardo perde ogni funzione ordinativa. Ogni colpo sganciato senza una metanarrazione condivisa non è un messaggio, ma un atto isolato che sfugge alla diplomazia e alimenta l’improvvisazione.

Per l’Europa, la sfida è radicale: abbandonare la postura dell’invocazione prudente e dotarsi di una grammatica politica adeguata alla conflittualità sistemica. Senza una voce comune, senza una visione strategica integrata, l’UE resta destinata a oscillare tra la funzione notarile e la marginalità geopolitica. In un mondo dove le crisi sono sempre più narrative prima che cinetiche, la mancanza di un linguaggio condiviso è più pericolosa di un errore tattico.

Nel tempo della post-diplomazia, la strategia del silenzio è un’illusione: a meno che non sia preceduta da una capacità di incasellare gli eventi in un progetto di equilibrio. E se l’Europa continuerà a farsi spettatrice prudente, incapace di articolare una propria linea, il risultato sarà sempre lo stesso: lasciare la scena a chi non ha timore di occuparla.