Le due anime dei Democratici sono in gran forma. Quale sfiderà Trump?

le due anime dei democratici
Riccardo Lo Monaco
05/11/2025
Orizzonti

Le prime significative elezioni locali dall’inizio della nuova amministrazione Trump hanno ridisegnato la mappa politica dei Democratici americani.

La Virginia e il New Jersey tornano saldamente in mano a un tradizionale centrosinistra con la vittoria di Abigail Spanberger e Mikie Sherrill, mentre Zohran Mamdani conquista New York portando in municipio l’ala più radicale del partito.
Tre successi che, pur avendo lo stesso colore politico, raccontano storie diverse e persino opposte su come i democratici intendono affrontare il futuro.

Qui Virginia

In Virginia, Abigail Spanberger ha vinto con una campagna dai toni sobri, centrata su un concetto chiave: “rendere la vita più accessibile”.
Un programma fatto di misure concrete – abbassare i costi della sanità, aumentare l’offerta di case, investire nelle scuole pubbliche e nella sicurezza locale – ma anche di una promessa politica più ampia: riportare competenza e stabilità dopo anni di polarizzazione.
E con queste ricette basate su una impostazione democratica più “tradizionale” ha letteralmente sbancato, strappando il governo dello stato ai Repubblicani con più di 15 punti di vantaggio.

Spanberger ha puntato su un messaggio semplice: meno ideologia, più soluzioni, senza tuttavia rinunciare a una battaglia identitaria per i Dem come quella sul diritto all’aborto.
In uno Stato dove il voto è ormai contendibile, Spanberger ha vinto convincendo gli elettori indipendenti e suburbani che non si riconoscono nel trumpismo, ma diffidano anche della sinistra radicale.

Qui New Jersey

Stesso copione, con accenti locali, in New Jersey, dove Mikie Sherrill ha sbaragliato con 13 punti di vantaggio il candidato repubblicano sostenuto apertamente da Donald Trump, tra l’altro dimostrando ancora una volta la fallacia dei sondaggi che la vedevano poco avanti rispetto allo sfidante repubblicano di non più di tre punti, tanto da ritenere la partita aperta e lo stato contenibile.

Anche lei ha costruito la sua immagine su tre parole: affordability, protecting kids, accountability – costo della vita, tutela dei bambini e responsabilità pubblica.

Ha promesso di dichiarare lo “stato d’emergenza” sul caro-energia e congelare temporaneamente le tariffe, di incentivare gli alloggi accessibili e di tagliare la burocrazia statale.
Un programma da governatrice-manager, che parla alle famiglie del ceto medio oberate da tasse e bollette, più che ai militanti di partito.

Spanberger e Sherrill formano così una nuova coppia di riferimento per il centro del partito democratico: donne, moderate, competenti, capaci di parlare a un elettorato stanco della retorica di Washington e attratto da una politica più concreta.

Qui New York City

Ben diverso il linguaggio di Zohran Mamdani, il nuovo sindaco di New York vicino al movimento dei Democratic Socialists of America.

La sua vittoria, nel cuore economico del Paese, ha sorpreso e diviso, ma New York, pur nella sua rilevanza planetaria, rappresenta elettoralmente una piccola e singolare bolla negli sterminati e variegati Stati Uniti.

Il suo programma – affitti congelati, trasporti pubblici gratuiti, asili nido universali, supermercati municipali e tasse più alte per i ricchi e le imprese – rappresenta la versione più esplicita del socialismo urbano americano.

Mamdani ha convinto giovani, minoranze e classi popolari stanche di un costo della vita insostenibile, ma la sua agenda è vista con diffidenza altrove.
Molti elettori democratici moderati, soprattutto negli Stati suburbani e del Sud, la considerano utopica e fiscalmente pericolosa.
Le sue proposte di welfare municipale esteso trovano terreno fertile solo in grandi città come New York, Chicago o San Francisco, dove l’intervento pubblico è percepito come necessità più che come intrusione.

Il suo linguaggio politico rompe apertamente con quello del mainstream democratico. Dove Spanberger e Sherrill parlano di “accessibilità” ed “efficienza”, Mamdani parla di “diritti economici universali” e “proprietà pubblica”.
È una visione che trova consenso nelle grandi metropoli, dove le disuguaglianze e il costo della vita sono più visibili, ma che resta marginale nel resto del Paese.

Le sue proposte, per quanto popolari a New York, non godrebbero dello stesso favore elettorale in stati come la Virginia o l’Arizona, dove la cultura politica rimane improntata a un certo individualismo economico e a un sospetto verso l’intervento diretto dello Stato.
Anche tra gli elettori democratici moderati, il progetto di welfare municipale totale viene percepito come fiscalmente insostenibile e culturalmente estraneo.
In poche parole, Mamdani vince dove l’urbanizzazione e la polarizzazione economica sono più forti; altrove, la sua agenda sarebbe probabilmente un boomerang.

Eppure la sua vittoria ha un valore simbolico: mostra che una parte crescente del partito vuole rompere con l’economia di mercato tradizionale e dare risposte più radicali a temi come la disuguaglianza, la casa e i salari stagnanti.

Si possono salvare capra e cavoli?

Le tre vittorie democratiche dipingono un partito che sembra vincere su due binari paralleli:
da un lato, il centrismo pragmatico di Spanberger e Sherrill, che parla all’America moderata dei sobborghi, ai lavoratori qualificati, alle famiglie istruite; dall’altro, il radicalismo urbano di Mamdani, che mobilita i giovani e gli elettori progressisti delle metropoli.

È una divisione geografica e culturale, prima ancora che politica: nelle aree suburbane, i democratici vincono promettendo efficienza e stabilità; nelle città globali, vincono offrendo redistribuzione e diritti economici.

Il problema è che questi due linguaggi non comunicano tra loro.

Il pragmatismo di Spanberger non entusiasma i militanti della sinistra metropolitana; la visione socialista di Mamdani spaventa i moderati che decidono le elezioni presidenziali.

Per ora, entrambe le strategie funzionano nei loro contesti, ma difficilmente una delle due potrà diventare il modello nazionale.

Se infatti il successo delle due neo-governatrici consolida l’impostazione tradizionale di Joe Biden, che aveva puntato (almeno a parole) su un partito moderato, inclusivo e poco ideologico, la vittoria di Mamdani indica che il messaggio centrista non basta più a una base democratica giovane e frustrata dal costo della vita e dall’insicurezza economica.
Tra chi chiede “più Stato” e chi vuole “meno caos”, il partito si trova di fronte a un dilemma strategico: governare l’esistente o trasformarlo.

I centristi promettono stabilità, ma rischiano di sembrare privi di visione; i progressisti propongono cambiamento, ma faticano a rassicurare il Paese.
È un equilibrio fragile, che ricorda quello dei primi anni Duemila in Europa: vincere al centro, ma con una sinistra che scalpita ai margini.

Il Partito Democratico del 2025 non è diviso: è plurale. Le sue tre vittorie non rappresentano una linea comune, ma un mosaico di strategie vincenti a livello locale, ognuna nel suo contesto.
La domanda, ora, è se da questo mosaico possa nascere una visione nazionale coerente.

L’America post-Trump non è più quella del 2016: è più povera, più polarizzata, più urbana.
E se oggi le formule di Spanberger e Sherrill garantiscono ordine e stabilità, domani la spinta di Mamdani potrebbe diventare la sola risposta possibile a un malessere sociale sempre più diffuso.

All’orizzonte non appare ancora nessuna figura capace di incarnare con autorevolezza, personalità presidenziale e credibilità le due anime: non c’è un nuovo Obama.

Qui Los Angeles


Forse il governatore della California Gavin Newsom, con suo profilo politico che combina progressismo valoriale e pragmatismo amministrativo, si colloca nella fascia alta del mainstream democratico, accanto a figure come Pete Buttigieg.

Newson ha carisma mediatico, esperienza amministrativa e una solida rete di finanziatori, ma deve ancora dimostrare di saper parlare all’America non costiera, meno progressista e più economico-populista.

Il suo messaggio potrebbe attrarre il blocco liberal urbano delle grandi metropoli, gli elettori istruiti e ambientalisti delle classi medie emergenti e una parte del centro moderato che cerca stabilità e competenza, soprattutto se i repubblicani dovessero continuare su posizioni radicali trumpiane; rimane invece più debole tra la working class bianca e gli elettori latini di orientamento moderato, dove il suo messaggio rischia di apparire elitario.

Newsom rappresenta la versione patinata e governabile del progressismo americano: ambientalista, tecnocratico, fortemente comunicativo, ma non populista.

Se riuscisse ad ampliare il suo consenso oltre la “bolla californiana” (dove ieri ha riportato una straordinaria vittoria col Sì al referendum per la ridefinizione dei collegi, che riequilibra quanto fatto da Trump in Texas), potrebbe presentarsi nel 2028 come il candidato della modernità progressista, in grado di unire l’establishment democratico e la base liberal senza scivolare nell’estremismo ideologico.

Dunque, finché il partito democratico riuscirà a tenere insieme queste due anime, il pragmatismo e la speranza, dosandole e mixandole all’occorrenza, continuerà probabilmente a vincere. Se, invece, una dovesse prevalere sull’altra e se non dovessero riuscire a trovare velocemente una sintesi nazionale, l’unità democratica potrebbe diventare la prossima vera sfida dei democratici che, a quel punto, rischierebbero di perdere di vista l’obiettivo Casa Bianca 2028.