Dostoevskij e i figli di Abramo. La libertà, la colpa e la speranza
Nel Poema del Grande Inquisitore, inserito ne I fratelli Karamazov (1880), Dostoevskij costruisce una scena universale. Cristo ritorna sulla terra durante l’Inquisizione spagnola, ma viene subito arrestato dal cardinale che lo riconosce. “Tu ci hai dato la libertà”, gli dice, “ma gli uomini non la vogliono: vogliono pane, miracoli e autorità”. Il monologo del Grande Inquisitore è forse la più grande parabola mai scritta sul rapporto fra fede e potere. Ma è anche, oggi, un invito a rileggere il mistero della libertà in un mondo che non sa più che farsene. Dostoevskij non condanna la religione: la salva restituendole il suo fondamento kenotico, il suo “svuotarsi” per lasciare spazio all’altro (Fil 2,7).
Il Dio che si ritrae
Nella sua visione teologica, il Creatore non domina, ma si ritrae. Come nello tzimtzum della mistica ebraica (Luria, Etz Chaim, I, 2), Dio “apre in sé” un vuoto per far posto al mondo. E come nel Vangelo, la kenosi del Figlio rinnova quell’atto creativo: Dio si svuota per amore, non per debolezza. Questo “lasciare spazio” è la legge nascosta della libertà. Ma è anche il suo dramma. Perché Dio ha dato all’uomo forte la libertà di scegliere il male, e non ha dato all’inerme la libertà di sfuggirgli? È la domanda che Dostoevskij affida a Ivan Karamazov, e che nessuna teologia ha ancora chiuso: la sproporzione tra libertà e vulnerabilità.
Da questa sproporzione nascono la violenza, la paura e il bisogno di un capro espiatorio (Girard, 1972). Eppure, solo dentro di essa può nascere anche la fede come amore gratuito — non come imposizione.
Gratitudine e mistero
Dostoevskij ci invita a una duplice riconoscenza: verso il Figlio, per la redenzione, ma prima ancora verso il Padre, per la creazione.
Ringraziare il Figlio significa accettare il perdono; ringraziare il Padre significa accettare la vita stessa come dono (Ireneo, Adversus haereses, V, pref.).
Solo unendo le due gratitudini, l’uomo può avvicinarsi al mistero del dolore innocente e trasformare la rivolta in compassione.
Il dolore dell’altro — del bambino di Ivan, dei piccoli offesi e degli inermi — è il centro stesso della sua teodicea negativa e capovolta: il luogo in cui l’uomo non spiega Dio, ma Lo attende. È il momento del dialogo con la sentinella del Salmo: “Sentinella, quanto resta della notte? – Viene l’alba, ma è ancora notte” (Is 21,11–12). Eppure, in questa notte, comincia la fraternità spirituale tra le tre religioni di Abramo.
Una nuova alleanza
Ebrei, cristiani e musulmani — tre vie diverse, un’unica attesa.
L’ebreo ricorda al cristiano che la storia non è compiuta; il cristiano ricorda all’ebreo che la Legge è ormai trasfigurata nell’amore; il musulmano, infine, ricorda a entrambi la grandezza dell’obbedienza e la dignità della preghiera (Borisova, 2009).
Non si tratta di un sincretismo, ma di un’alleanza del pudore e del silenzio davanti all’ineguaglianza della sorte e alla ferita dell’innocente. Un’alleanza che nasce dalla consapevolezza che laicamente e di fronte al mondo nessuna fede monopolizza la verità, ma tutte possono servirla, perché la fede del credente nel riconoscere la propria rivelazione come unica non deve tradursi in pretesa di monopolizzare quell’amore che è il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, di Gesù e di Maometto.

La bellezza che salva e trasfigura
La risposta di Dostoevskij alla disperazione di Ivan e al potere dell’Inquisitore è quindi “la bellezza che salva il mondo “(Dostoevskij, Idiota, 1869, p. 313): non l’estetismo, ma la bellezza dell’amore gratuito. “Dio si fece uomo perché l’uomo diventasse Dio” (Ireneo, Adversus haereses, V, pref.): il Cristianesimo in particolare non è solo la religione della Redenzione, ma, in senso più vasto, della Trasfigurazione, che rende l’uomo collaboratore creativo del Padre. Questa verità di fede, valida soprattutto per il cristiano, dice però qualcosa di universale sulla necessità della bellezza. Trattasi non dell’oro della gloria trionfante, ma della trasparenza del dono di sé, che peraltro nel mistero della vita eterna non è, per il credente, il sacrificio anche doloroso che si sperimenta sulla terra. E il mistero della bellezza sta proprio nel fatto che essa a sua volta va difesa e si associa alla vulnerabilità: se trionfasse di sua natura avremmo un mondo senza contraddizioni in cui l’opera e gli sforzi umani sarebbero inutili.
Riconoscere invece questa responsabilità e questo compito dell’uomo dà modo alla bellezza di riconciliare, senza confonderli, libertà e vulnerabilità, fede e dubbio, dolore e speranza nella stessa tenerezza. E in questa consapevolezza nasce la possibilità di camminare insieme come figli di Abramo che parlano la stessa lingua della speranza: quella che unisce la fede e la ragione, la giustizia e la misericordia, il silenzio e la parola.
Riferimenti essenziali
- Benedetto XVI, Spe salvi, 2007.
- Borisova, V. V., Достоевский и исламский мир, Mosca, 2009.
- Dostoevskij, F. M., Братья Карамазовы, 1880.
- — Идиот, 1869.
- Girard, R., La violence et le sacré, Paris, 1972.
- Ireneo di Lione, Adversus haereses, ca. 180 d.C.
- Luria, I., Etz Chaim, Safed, 1573.









