Come Italia e Mongolia hanno calpestato il diritto internazionale (ma l’Italia con disonore)

Emanuele Pinelli
23/01/2025
Poteri

Che questi siano tempi in cui la forza bruta è tornata a regolare i rapporti tra gli stati, e in cui il diritto internazionale non viene più rispettato neanche a parole, è sotto gli occhi di tutti. 
Il sintomo forse più eloquente è stato il doppio sfregio che in pochi mesi è stato inflitto alla Corte Penale Internazionale. In tanti sospettavamo che i mandati d’arresto di quest’ultima fossero considerati “self service”, ovvero eseguibili o ignorabili a seconda della convenienza. Ma negli ultimi mesi ben due paesi ce ne hanno dato la conferma concreta: il primo è stato la Mongolia, e il secondo, purtroppo, è stato l’Italia.

C’è, tuttavia, una differenza non trascurabile di dignità e di stile tra come i mongoli hanno seppellito il diritto internazionale e come l’hanno seppellito gli italiani. E, purtroppo, chi ne esce meglio sono i mongoli.

Il caso Putin in Mongolia: una resa senza equivoci

All’inizio del settembre 2024, il dittatore russo Vladimir Putin ha chiesto di venire in visita ufficiale in Mongolia. Su di lui pende un mandato d’arresto della Corte Penale Internazionale per un crimine di cui si hanno le prove visive inequivocabili: il rapimento nei territori occupati in Ucraina di 20.000 bambini e adolescenti, che sono stati deportati in Russia, sono stati convinti che i loro genitori fossero morti, sono stati riprogrammati per parlare russo e per disprezzare il loro paese d’origine, e adesso stanno venendo dati in adozione forzata a coppie russe. Fra tanti crimini di guerra commessi dai russi contro gli ucraini (come le distruzioni di ospedali e dighe, l’esecuzione dei prigionieri o le stragi di civili nei sobborghi di Kiev), il rapimento dei bambini è quello per cui è stato più facile risalire alle responsabilità personali di Putin, che l’aveva ordinato alla sua ministra dell’infanzia con un atto ufficiale e di fronte alle telecamere. 
Dunque le autorità mongole erano in dovere di arrestarlo.

Ma la Mongolia è un paese schiacciato tra Russia e Cina, privo di sbocchi sul mare, e dunque costretto a rifornirsi di energia attraverso gli oleodotti e i gasdotti controllati da Putin e da Xi. Così il portavoce del governo mongolo, con qualche imbarazzo ma anche con grande chiarezza, ha dichiarato alla stampa estera: “La Mongolia importa dai suoi vicini il 95% del suo petrolio e il 20% della sua elettricità, risorse di cui recentemente siamo rimasti privi per motivi tecnici. Quei rifornimenti sono critici per assicurare l’esistenza stessa della nostra gente”. E Putin non è stato arrestato.

È vero, è stato un atto di sottomissione. È vero, è stata un’ammissione che il diritto internazionale è solo carta straccia. Ma i mongoli, almeno, hanno fatto questa scelta in un contesto di oggettiva debolezza. E, soprattutto, hanno fatto questa scelta prendendosene tutta la responsabilità.

Qualche mese più tardi, il 18 gennaio del 2025, la Corte ha spiccato un altro mandato d’arresto, questa volta ai danni del libico Osama Almasri al-Najim
La carica ufficiale di quest’uomo è capo della polizia giudiziaria del governo di Tripoli (che, come è noto, è solo uno dei due governi che si contendono il paese, quello sostenuto dall’ONU, dalla Turchia e dall’Italia). Col pretesto di dover detenere e interrogare i membri di gruppi terroristici, Almasri ha trasformato le prigioni delle quali è responsabile in dei veri e propri lager dove avvengono torture quotidiane.



Italia e il metodo don Abbondio: cavilli e mancate responsabilità

Va da sé che vi finiscono rinchiuse anche migliaia di persone che con il terrorismo hanno poco a che fare, in particolare migranti dell’Africa subsahariana che vorrebbero imbarcarsi per l’Europa: lo scopo, in molti casi, sarebbe estorcere somme di denaro ai migranti in cambio dell’interruzione delle torture e del loro rilascio per tentare la traversata. Se queste accuse fossero confermate, Almasri sarebbe parte in causa del traffico di esseri umani attraverso il Mediterraneo. E sarebbe, perciò, autore di crimini contro l’umanità.

Almasri era abituato a viaggiare liberamente per l’Italia, che considerava, non a torto, un’alleata del suo governo. Ma, in virtù del mandato d’arresto internazionale che era stato appena emesso, la polizia torinese l’ha arrestato il 19 gennaio mentre andava allo stadio a vedere Juventus-Milan.
Ora, un arresto per crimini contro l’umanità deve avvenire con modalità diverse rispetto a un comune arresto per furto con scasso. Il Ministero della Giustizia del paese in cui si trova il criminale deve convalidarlo. Ma, quando la procura di Torino ha contattato via Arenula, non ha ricevuto dal ministro Nordio nessuna risposta per più di un’intera giornata

Il giorno seguente, poi, il ministro si sarebbe limitato a far sapere che si trattava di un “complesso carteggio” (tradotto: “di un arresto problematico da convalidare”) e che dunque “stava valutando la trasmissione formale della richiesta della C.P.I. al Procuratore Generale di Roma ai sensi dell’art. 4 della legge 237 del 2012” (tradotto: “stava valutando se convalidarlo o no”).

Dopo aver preso atto che il ministro non aveva deciso nulla per due giorni, la procura di Torino è stata costretta a scarcerare Almasri riconoscendo “l’irritualità dell’arresto”, ovvero il fatto che era avvenuto senza che il ministro si fosse pronunciato in merito. Al danno poi si è aggiunta la beffa: trattandosi di un pubblico ufficiale del governo di uno stato sovrano, l’Italia l’ha dovuto rimpatriare con un volo di Stato.

Dunque l’Italia, proprio come la Mongolia, ha affermato agli occhi del mondo che il diritto internazionale è carta straccia. Ma i poveri mongoli l’hanno fatto con franchezza, chiedendo perdono e cercando di spiegare che avevano di fronte un pezzo troppo grosso: un criminale armato di 5.000 testate atomiche e padrone di gran parte del petrolio che consumano.

Gli italiani invece si sono rifugiati nell’equivoco e nel cavillo legale: hanno finto di non scegliere, lasciando passare il tempo e alla fine constatando “l’irritualità” dell’arresto di Almasri, come se fosse stata una fatalità di cui nessuno aveva colpa.
La classica scorciatoia per non prendersi responsabilità. Il classico equilibrismo che permette di schierarsi continuando a fingersi neutrali, di accontentare l’uno continuando a non inimicarsi gli altri: in breve, il metodo don Abbondio.

Con un’aggravante, però: se a don Abbondio i bravi avevano fatto capire che rischiava niente meno che la sua pelle, l’Italia non ha certo da temere il proprio annientamento se scontenta il governo di Tripoli. Il peggio che potrebbe accadere è che la Libia si riduca a un campo di battaglia tra Russia e Turchia estromettendo l’Italia (il che, intendiamoci, sarebbe assai spiacevole), ma soprattutto che i cancelli delle prigioni libiche si aprano e decine di migliaia di africani tentino il viaggio fino alle nostre coste. 

Almasri, insomma, tiene in pugno il mazzo di chiavi da cui dipende il consenso interno di Giorgia Meloni sulla riduzione degli sbarchi clandestini.  È in cambio di questo, con ogni probabilità, che il nostro paese ha umiliato la Corte Penale Internazionale e ha svilito lo stato di diritto. Senza, peraltro, rivendicare di averlo fatto. Senza avere il coraggio di spiegare perché l’ha fatto. Tentando come al solito di nascondersi dietro la burocrazia e di incolpare uno spiacevole contrattempo, un terribile fraintendimento, “un terremoto, una tremenda inondazione, le cavallette, non è stata colpa mia, lo giuro su Dio!” (cit).

Una doppia vergogna che verrà ricordata senz’altro tra i risultati poco lusinghieri del governo Meloni. A maggior ragione nel momento in cui coinvolge uno dei suoi membri ritenuti più affidabili, apprezzato anche al di fuori del perimetro della destra, citato spesso come possibile successore di Mattarella: Carlo Nordio.