Dai bonus di Conte ai reati di Meloni, l’Italia è governata come un feudo

Tre anni fa cominciava la crisi del governo Draghi.
I meno smemorati ricordano bene come si svolse. Già da mesi tra i Cinquestelle c’erano mal di pancia su quel che il governo di unità nazionale stava facendo: il sostegno all’Ucraina, i grandi cantieri per le infrastrutture e soprattutto lo smantellamento silenzioso delle spese clientelari su cui si reggeva il patto dei grillini con i loro elettori.
Giuseppe Conte, il “fortissimo riferimento di tutti i progressisti” spodestato per fare posto a Draghi, era il volto paonazzo di questo nervosismo.
Una volta chiusa la partita interna contro Luigi Di Maio, Conte minacciò di staccare la spina al governo col pretesto di bloccare l’inceneritore di Roma.
Si cominciarono allora a sondare le alternative. Andare avanti senza i Cinquestelle, regalando anche a loro come alla Meloni una stagione di opposizione facile? Cedere alle loro pressioni? Andare subito al voto?
Mentre ancora si discuteva, arrivò una seconda pugnalata alle spalle molto più imprevista e più letale: quella di Forza Italia.
Il partito che si diceva “liberale” e “moderato” non poteva in realtà sopportare le riforme che avrebbero toccato due importanti sacche di privilegio come i tassisti e i balneari.
Inoltre, i sondaggi dicevano che eventuali elezioni-lampo sarebbero state stravinte dal centrodestra, dove i berlusconiani avrebbero lucrato più poltrone e più prebende di quante ne avessero nel governo di unità nazionale.
Anche a questo secondo ricatto Draghi non volle piegarsi, e così accadde l’inevitabile.
A nulla valsero le lettere inviate da infermieri, medici, economisti, volontari del terzo settore e responsabili di migliaia di aziende, che supplicavano i partiti di allungare ancora per un po’ il momento di stabilità e di credibilità internazionale che il paese stava attraversando – se non altro per impostare bene le spese del PNRR, che allora chiamavamo “Recovery Plan”.
Alla fine del mese Draghi si era dimesso. Tre mesi di ordinaria amministrazione e si sarebbe tornati al voto.
Conte: lo shopping del consenso coi soldi pubblici
Così finì quel breve momento di sollievo tra due soffocanti epoche di populismo.
Sappiamo cosa era venuto prima: il contismo, ovvero l’acquisto a peso d’oro del consenso attraverso uno sperpero di soldi che venivano spostati dalle tasche di cittadini anonimi a quelle di membri di categorie precise che potessero sentirsi riconoscenti per il dono.
Prima il reddito di cittadinanza e la Quota100, due mazzate da 15 miliardi all’anno, che perlomeno erano giustificate dal fatto che una piccola parte dei beneficiari era in seria difficoltà economica.
Poi, con la pandemia, l’abisso.
Solo i bonus edilizi hanno indebitato gli italiani per 150 miliardi (una cifra superiore a tutto il Piano Marshall a parità di potere d’acquisto), ma non dimentichiamo il bonus vacanze, il bonus terme, il bonus Bau, il bonus nonni (sottoinsieme del bonus babysitter), il bonus mobili ed elettrodomestici, il bonus bici, il bonus rubinetti, il bonus matrimonio, il bonus decoder.
Un perverso gioco delle tre carte in cui il sovrano si intrometteva in qualunque acquisto del suddito per cattivarsi la sua gratitudine, mentre l’economia nel suo insieme cresceva molto meno di quanto sarebbe cresciuta se gli italiani fossero stati lasciati liberi di usare gli stessi soldi per comprarsi quel che preferivano a prezzi di mercato (o, in un’ottica socialista, se quegli stessi soldi fossero stati concentrati dallo Stato su pochi investimenti mirati).
Uno stile di governo sudamericano, accompagnato dalla glorificazione sudamericana del leader come Avvocato del Popolo e salvatore dal Covid, che poteva portare solo a risultati sudamericani.
Meloni: il consenso “a costo zero” con il codice penale
Sappiamo anche che cosa è venuto dopo: il melonismo. Un fenomeno più sfumato del contismo, ma con aspetti altrettanto inquietanti.
La maggioranza di centrodestra ha ereditato un bilancio pubblico terremotato dal “fortissimo riferimento di tutti i progressisti” e non ha potuto fare altro che proseguire lungo la via del risanamento già intrapresa da Draghi. Ha dovuto, quindi, tenere controvoglia i conti in ordine e astenersi dallo shopping elettorale.
Anche in politica estera, con la guerra già portata da Putin nel cuore dell’Europa, Meloni si è ritrovata un binario obbligato da seguire e poche carte demagogiche da giocarsi.
La sua retorica incendiaria sull’immigrazione ha avuto lo stesso punto di caduta che ai tempi di Minniti aveva avuto la retorica smielata del PD: milioni di ingressi con i flussi regolari, a cui l’Italia non può rinunciare, e ricchi bonifici ai macellai dell’altra sponda per frenare i flussi irregolari.
Che cosa le restava, a quel punto, da dare in pasto all’elettorato?
Purtroppo, dopo quasi tre anni, l’abbiamo scoperto: il manganello e le sbarre della cella.
Meloni ha fatto un uso mediatico del diritto penale che fa rabbrividire qualunque persona di buonsenso. Ad ogni episodio di cronaca ha reagito introducendo un nuovo reato, una nuova aggravante o un nuovo aumento di pena, con la stessa impulsività con cui quando era all’opposizione avrebbe digitato un tweet.
Così, uno dopo l’altro ci siamo ritrovati il reato di rave party, il reato di blocco stradale, il reato di vendita di cannabis light, il reato di “imbrattamento per ledere l’onore delle istituzioni pubbliche”, il carcere per chi aggredisce gli infermieri e gli insegnanti (e perché non le segretarie e i bagnini?), il carcere per chi truffa gli anziani (e perché proprio gli anziani?), il carcere per chi maltratta gli animali (quali specie di animali?) con aggravante per chi lo fa in diretta social (le pulci del mio gatto soffrono di più se pubblico un tutorial su come le ammazzo?), l’arresto per chi guida dopo aver bevuto anche senza aver causato incidenti, l’aggravante per chi delinque vicino a una stazione (e perché non vicino a un parco giochi?) e un’altra valanga di misure tanto repressive quanto discrezionali.
Nel paese dell’Azzeccagarbugli
Prese una per una, queste misure possono sembrare a costo zero per il governo ed emotivamente accettabili per i cittadini, dal momento che puniscono comportamenti intorno ai quali c’è parecchia indignazione collettiva.
Ma messe tutte insieme causano gli effetti collaterali dei quali Beccaria ci ha avvertiti con pazienza tre secoli fa: perdita di autorevolezza dello stato, che non è fisicamente in grado di imporre sanzioni così severe a così tanti trasgressori, aumento della gravità dei reati (se vado in galera anche per trasgressioni lievi, ho meno remore a commetterne di gravi), sofferenze peggiori per chi viene accusato ingiustamente, intasamento dei tribunali che ritarda il momento in cui si sconta la pena o in cui si viene riconosciuti innocenti.
Oltre al danno, poi, c’è una beffa che conosciamo bene grazie all’Azzeccagarbugli dei Promessi Sposi: nei territori in cui c’è un contropotere mafioso che la legge non osa toccare, la durezza delle pene tormenta solo i deboli risparmiando i forti. Non proprio una bella pubblicità per le istituzioni.
Carceri già al collasso
Anche al netto di tutto questo, un’applicazione a tappeto delle nuove leggi securitarie riempirebbe le prigioni con decine di migliaia di nuovi reclusi.
Ma sappiamo che già adesso la popolazione carceraria è al collasso e vive in condizioni da carro bestiame, con quasi cento suicidi all’anno: sembra quasi un ritorno per vie traverse della pena di morte.
Di fronte a questo dato di realtà, cosa pensa di fare il governo di Salvini e Meloni?
Vietare le proteste in carcere, a partire dal semplice sciopero della fame. Equiparare gli istituti per minorenni a quelli per adulti, con l’assurdo “Decreto Caivano” che sta privando di ogni speranza chi ha sbagliato da ragazzino.
Permettere di incarcerare anche le donne in gravidanza o con bambini piccoli.
“Rivedere le leggi contro la tortura per permettere agli agenti di fare meglio il loro lavoro” (questo è Salvini, ovviamente).
Unica alternativa all’imprigionamento che sta venendo studiata, al momento, è la castrazione chimica: una brutalità che persino il regime musulmano fanatico del Pakistan si è rifiutato di approvare.
In breve, l’impossibilità per Meloni di fare demagogia spicciola comprandosi il consenso col denaro pubblico sta venendo purtroppo pagata col sangue, lontano dagli occhi del cittadino comune, nei mattatoi in cui le nostre prigioni si stanno via via trasformando.
Una regressione al feudalesimo
Ma c’è poco di cui stupirsi. I populisti si sono sempre rifatti a un modo di esercitare il potere feudale e pre-moderno, che, a parer loro, dovrebbe apparire agli elettori più semplice, più ordinato e più comprensibile rispetto al contratto sociale paritario su cui si fonda una democrazia matura.
Dal feudalesimo Conte aveva ripreso il beneficio clientelare con cui il signore lega a sé il plebeo in un rapporto di dipendenza e gratitudine personale.
Meloni, invece, ha ripreso la ferocia con cui il signore annuncia pene esemplari per i criminali, le infligge ad alcuni singoli individui qua e là, e così illude il plebeo di starsi curando della sua sicurezza, anche se la sicurezza del plebeo, come Beccaria ha ben dimostrato, non aumenta.
Una finzione spettacolare che maschera l’impotenza.
Quanto ci manca Mario Draghi, e quanto ci mancano veri statisti che non dividano l’Italia in signori e plebei.