L’alfabeto latino non ha più rivali. Neanche in Asia
All’inizio di ottobre, l’Organizzazione degli Stati Turchi – che include Turchia, Azerbaijan e gli “Stan” dell’Asia centrale – si è impegnata ad adottare un nuovo alfabeto comune, che prende come base quello latino aggiungendogli otto nuovi caratteri.
Nell’annunciare la decisione, che cambierà la vita quotidiana di 200 milioni di persone, Erdogan ha anche presentato due volumi già stampati nel nuovo alfabeto: un’opera di Chyngiz Aykmatov, il massimo scrittore kirghiso del ‘900, e il Libro degli Oghuz, un’epopea sulle gesta dei popoli turchi che fu messa per iscritto nel ‘600.
Una manifestazione di potenza
Impossibile sottostimare la forza di questo gesto simbolico. Dai tempi del dominio sovietico, le lingue centroasiatiche sono state scritte in caratteri cirillici: di qui a qualche anno, invece, potrebbero diventare graficamente simili al turco, rafforzando l’idea di un’unità etnica e culturale che dagli Stretti si estende fino alle montagne dell’Hindukush.
Del resto, Erdogan non ha mai fatto mistero di voler scalzare Putin come patrono politico dell’Asia centrale. Le sue ambizioni internazionali sull’area sono ben note a chi si occupa di economia, di difesa e di cosiddetta “geopolitica”.
Ebbene, espandere nell’area l’alfabeto latino renderà quelle ambizioni plasticamente visibili a chiunque: le pagine web, i libri stampati, i cartelli e le insegne negli “Stan” non avranno più niente in comune con le pagine web, i libri stampati, i cartelli e le insegne della Russia, mentre saranno assimilabili fin dal primo sguardo alle pagine web, ai libri stampati, ai cartelli e alle insegne della Turchia.
Ora, è improbabile che un paese di media taglia come quello di Erdogan abbia risorse sufficienti per proiettare la sua influenza su un territorio così immenso (peraltro mentre cerca di estenderla anche sul Medio Oriente, sull’Africa islamica e sui Balcani). Conosciamo la megalomania del personaggio.
Ma, anche se il nuovo alfabeto non riuscisse a sostituire l’egemonia turca a quella russa, darebbe comunque a tutti quei paesi un vantaggio non trascurabile: il più facile accesso allo sviluppo delle intelligenze artificiali, che, essendo state addestrate sulla lingua inglese e quindi sui caratteri latini, processano più facilmente i dati espressi nello stesso alfabeto.
Una storia di successo
Già solo questo fatto dovrebbe farci riflettere su quanto sia forte il soft power di quella piccola manciata di lettere, codificata (si dice) dagli etruschi dopo il loro contatto con le colonie greche circa 2.700 anni fa.
Da allora, il loro uso nel mondo non ha fatto che aumentare di generazione in generazione, e ad oggi è molto più diffuso di quanto penseremmo istintivamente.
Se la Roma pagana aveva cancellato quasi ogni traccia delle lingue dei popoli che aveva sottomesso in Europa, la Roma papale mise a disposizione il suo alfabeto per produrre documenti nelle lingue degli ex “barbari”: non solo franchi e visigoti spagnoli, ma anglosassoni, scandinavi, tedeschi, frisoni, boemi, magiari, baltici e polacchi.
Con la minuscola carolina, madre di tutte le nostre font in stampatello minuscolo, gli ecclesiastici impostarono anche il formato più popolare in cui quell’alfabeto è stato scritto fino ad oggi.
Venne poi l’età dell’espansione coloniale oltreoceano. Oggi tutte le Americhe scrivono nel nostro alfabeto (incluse alcune lingue indigene, delle quali i missionari compilarono grammatiche e vocabolari), mentre 45 paesi africani lo adottano per le loro lingue tradizionali.
Un segno di rottura
Non mancano i casi in cui il passaggio all’alfabeto latino ha segnato una rottura intenzionale col passato.
Pensiamo ai principati rumeni, che abbandonarono lo slavonico liturgico per presentarsi come nazioni occidentali eredi di Roma e desiderose di sfuggire agli artigli di Zar e Sultani.
Pensiamo agli albanesi, che nel 1908 scelsero l’alfabeto latino come scrittura esclusiva per la loro lingua per sfoggiare compattezza e orgoglio mentre dichiaravano la loro indipendenza.
Ma pensiamo soprattutto alla Turchia di Atatürk, che un secolo fa abbandonò la vecchia grafia derivata dall’arabo per dare un segnale di laicità e per facilitare l’apprendimento nelle nuove scuole pubbliche che aprivano al posto delle scuole coraniche.
Questo accadeva nel vecchio mondo analogico.
Adesso, con l’avvento dell’era digitale, stiamo assistendo a fenomeni più ambigui da interpretare ma altrettanto affascinanti da conoscere, che riguardano in primo luogo i due colossi asiatici protagonisti del nostro secolo: l’India e la Cina.
Dall’English all’Hinglish
In India i social media hanno raggiunto per primi i grandi centri urbani, dove gli utenti sono spesso in grado di leggere e scrivere direttamente in inglese.
Basti pensare che nel 2021 ben il 91% dei messaggi scritti da donne sui social del gruppo Meta (vale a dire Whatsapp, Instagram e Facebook) era in lingua inglese.
Si trattava, tuttavia, di una barriera all’ingresso insormontabile per le persone – e soprattutto per le donne – delle campagne.
Così, le aziende digitali hanno introdotto dei plug-in come SwiftKey, grazie ai quali gli utenti possono digitare una parola in caratteri latini e vedersela traslitterata in tempo reale nella scrittura Devanagari o nell’Hindu fonetico. Ad esempio, scrivono “namaste” e sullo schermo compare direttamente “नमस्ते”.
Nonostante questa opportunità, per molti indiani risulta più comodo comunicare in quello che scherzosamente chiamano “Hinglish”, e che è una sorta di compromesso: le lingue locali scritte e lette in alfabeto latino.
Insomma: in questo preciso momento storico, la produzione di testi scritti in India (che avviene in larghissima misura via smartphone, come ovunque nel mondo) prevede l’uso a vari livelli del nostro alfabeto.
La Cina in mezzo al guado
Ancora più sorprendente, però, è quel che sta accadendo in Cina.
I cinesi, con le loro migliaia di hanzi (pittogrammi) che non possono entrare in nessuna tastiera digitale, hanno ancora più bisogno dell’input in caratteri latini rispetto agli indiani.
Il loro sistema per digitare le lettere latine ottenendo come output i pittogrammi cinesi si chiama pinyin, e viene usato dalla maggior parte degli utenti di Internet (tra cui il 97% degli adolescenti).
Di fatto, più di un miliardo di persone ogni giorno usa WeChat (l’equivalente di Whatsapp), WeiBo (l’equivalente di Twitter), Douyin (la versione non drogante di Tiktok) e Youku (l’equivalente di Youtube) componendo le parole mandarine con le lettere dei nostri antenati romani.
Incoraggiare o reprimere?
Alcune ricerche hanno suggerito che una buona padronanza del pinyin sia imprescindibile per comunicare in mandarino sul web, e che quindi l’apprendimento del pinyin andrebbe incoraggiato dalle scuole e dalle pubbliche autorità.
Ma si tratta di un’arma a doppio taglio. Ed è facile capire il perché: quanti cinesi si ricorderanno ancora come disegnare i pittogrammi mandarini, dopo trenta o quarant’anni passati a scrivere testi quasi solo online e con il filtro del pinyin?
La capacità autonoma di scrittura nella lingua madre non rischia di indebolirsi?
Dopotutto, 101 milioni di abitanti del vicino Vietnam scrivono già da tempo in lettere latine, visto che i pittogrammi importati dalla Cina non si erano mai prestati bene a esprimere la loro lingua popolare.
Peraltro, i primi cinesi che stanno imparando a usare il pinyin come lingua a sé stante, senza attivare il software che lo converte in pittogrammi mandarini, sono i cittadini critici verso il governo, che con questo stratagemma ingannano più facilmente i filtri automatici di cui è disseminato l’Internet cinese.
Ancora una volta, l’alfabeto latino si ritrova a giocare il ruolo di codice segreto per sbloccare spazi di libertà.
L’alfabeto del mondo
Dagli scriptoria del Medioevo agli algoritmi moderni, l’alfabeto di Virgilio e di Cicerone ha influito sulla vita di popoli interi, in modo silenzioso ma concreto.
Di fatto, è ormai candidato a diventare l’alfabeto del mondo: la chiave di accesso a tutte le lingue, proprio come le cifre indiane sono diventate la chiave di accesso a tutte le scienze.
Quanto sia uno strumento impareggiabile di soft power, lo si capisce immaginando una situazione a parti invertite: se per scrivere ai nostri figli su Whatsapp “Torna entro mezzanotte” fossimo costretti a disegnare pittogrammi cinesi sullo schermo con un pennino, sentiremmo la Cina onnipresente nelle nostre vite.
E sarebbe una presenza molto meno neutrale rispetto a quella delle cifre indiane: la matematica infatti non ha implicazioni politiche, mentre la lingua e la scrittura le hanno, e l’attualità ci sta mostrando quanto siano profonde.








