Che cosa ci aspetta dopo gli accordi di Sharm el-Sheik
Un accordo «storico» che «stabilisce un cessate il fuoco e la fine della guerra a Gaza dopo due anni di sofferenze e dolori». Sono le parole del presidente egiziano al-Sisi.
È «un momento storico» -ha aggiunto- perché «non solo chiude il capitolo della guerra, apre anche la porta alla speranza per i popoli della regione per un futuro di giustizia e stabilità».
I contenuti dell’accordo
Come tanti altri, ho sperato in questo esito.
Il fatto che la proposta venga da Trump non è un buon motivo per non vederne le possibili implicazioni positive.
Stato palestinese in cambio dell’uscita di scena di Hamas e del rafforzamento delle autorità palestinesi che hanno rinunciato alla follia della Palestina “dal fiume al mare”, ovvero della cancellazione dello Stato di Israele.
Con il corollario positivo del ritorno al centro della scena del Qatar: non a caso, in contemporanea con il testo dei 20 punti di Trump sono arrivate anche le scuse di Netanyahu ad al-Thani per il raid su Doha.
Siamo nell’alveo della cosiddetta Dichiarazione di New York approvata all’ONU il 12 settembre con il sostegno dei paesi arabi moderati e dell’Unione Europea. Dichiarazione che Israele all’epoca non aveva votato, definendo quel voto “vergognoso”.
Il sostegno di Netanyahu al piano Trump non era scontato e ha rappresentato un cambiamento epocale, anche perché il documento del Presidente USA apre alla prospettiva di uno Stato palestinese.
Netanyahu mette quindi in conto di poter perdere l’appoggio della destra estrema e quindi della maggioranza di governo, salvo che i partiti “centristi” non vengano in soccorso per salvare l’accordo e riportare a casa gli ostaggi, anche in considerazione del fatto che a ottobre 2026, al termine della legislatura, si voterà comunque.
Hamas non è riuscita a uccidere gli Accordi di Abramo
Questo accordo è la fine della guerra? Non subito.
Può essere però l’inizio della fine di un conflitto va avanti da decenni. Soprattutto se si riaprirà anche il percorso degli Accordi di Abramo, bruscamente (e scientemente!) interrotto con il massacro del 7 ottobre di cui era il principale bersaglio.
L’estensione degli Accordi di Abramo a tutti i paesi arabi moderati sarebbe la ulteriore garanzia di una pacificazione duratura in tutta l’area. Quei paesi formerebbero infatti una sorta di ‘cordone sanitario’ per Israele e Palestina, e quindi anche per la prospettiva dei due stati.
Il fatto stesso che Israele abbia trattato (e continuerà a trattare) con i rappresentanti dei Gazawi dimostra che le accuse di voler mettere in atto un genocidio, che sono servite a nobilitare le manifestazioni contro lo Stato ebraico, erano del tutto pretestuose. Con buona pace della sacerdotessa Albanese.
È un accordo perfetto?
Non è un accordo perfetto. La proposta Trump (e Hamas non ha chiesto integrazioni su questo punto) non dice nulla, per esempio, sulla Cisgiordania e sul necessario (per la nascita di uno Stato palestinese e per la stabilizzazione dell’area) ritiro progressivo degli insediamenti israeliani da quel territorio.
Vero, ma…
1) non si poteva chiedere tutto e subito al premier israeliano. Inoltre,
2) se, come probabile, gli oltranzisti Ben Gvir e Smotrich usciranno dal governo, sarà molto più facile raggiungere quel risultato. E sarà anche un’ottima notizia per il mondo. A proposito, Smotrich ha già iniziato a sfilarsi dall’accordo e Ben Gvir ha detto che si dimetterà se dovesse essere approvato.
In sintesi: la strada è ancora lunga e stretta ma era ed è l’unica percorribile. Il difficile viene ora.
Chi ha a cuore la pacificazione e la restituzione ai Gazawi di una vita degna di essere vissuta e di una speranza per il futuro non può che fare il tifo perché il processo avviato in Egitto non si fermi.
Lo stesso accordo prevede più fasi e un incidente di percorso farebbe crollare tutto, forse irrimediabilmente. In mezzo potrebbe anche esserci un cambio di maggioranza in Israele con l’ingresso del leader dell’opposizione Yair Lapid.
Perché l’evoluzione vada verso quanto auspicato, inclusa la nascita di uno stato palestinese, inclusa la pacificazione duratura di tutta l’area, molto altro lavoro resta da fare: l’uscita dai giochi della destra israeliana, l’arretramento dell’esercito di quel Paese, l’esilio per i terroristi di Hamas, l’allargamento degli accordi di Abramo.
Se il comportamento di tutti gli attori durante il percorso darà sufficienti garanzie che si è avviato un processo irreversibile arriveremo anche alla auspicata nascita di uno stato palestinese, fino a libere elezioni da svolgersi in condizioni di sicurezza.
Le ultime furono spazzate via da un colpo di Stato di Hamas, quindi l’esilio per i suoi leader è una prima garanzia che tutto questo non sia inutile.
Non è il momento di disinteressarci
Sarà fondamentale che anche la comunità internazionale e i popoli occidentali facciano la loro parte “da fuori”: non è il momento di smobilitare.
È il momento di chiedere con tutte le nostre forze a ONU, UE e agli stati membri di accompagnare il processo che si è aperto con gli accordi di Sharm el-Sheikh.
Scopriremo presto quanto erano in buona fede e quanto strumentali le mobilitazioni dei giorni scorsi. Adesso che non c’è più il “nemico sionista” da additare, che ne sarà di tutti gli intellettuali e le sacerdotesse arrivati agli onori della cronaca?
Metteranno al servizio della pace il credito di cui godono almeno in certi ambienti?
Sono pessimista, ma lo ero anche sul fatto che si sarebbe raggiunto un accordo. Spero quindi di sbagliarmi di nuovo.
Ci sarà tempo per altre analisi.
Adesso godiamoci questo momento, salutiamo il cessate il fuoco e il prossimo rientro a Gaza di aiuti e personale sanitario, gioiamo insieme alla popolazione di Gaza e ai familiari degli ostaggi, che si spera tornino a casa vivi in numero maggiore a quelli stimati oggi.








