“Putin vuole andare in fondo”: Trump si sveglia tardi, i danni a Ucraina e Occidente restano

Donald Trump ha dichiarato oggi, 5 luglio 2025, che Vladimir Putin “vuole andare fino in fondo, continuare a uccidere, non va bene”, lasciando anche intendere che potrebbe finalmente inasprire le sanzioni contro la Russia. Un’ammissione tardiva, che arriva dopo mesi di approccio remissivo verso il Cremlino, culminato nella sospensione da parte degli Stati Uniti di diverse forniture militari cruciali all’Ucraina, tra cui sistemi antiaerei Patriot, missili GMLRS e altri armamenti strategici.
Queste dichiarazioni, sebbene dure nei toni, non cancellano un dato politico fondamentale: Trump ha perso tempo prezioso credendo di poter negoziare con Putin, sottovalutando totalmente la natura del regime russo e illudendosi che fosse possibile trattare con un leader razionale e disposto al compromesso.
Come spiega con efficacia Anna Zafesova nel suo recente saggio Russia, l’impero che non sa morire. Il passato di Mosca, il futuro di Kyiv (Rizzoli, 2025), la Russia di Putin non è semplicemente una potenza revisionista: è un sistema politico e culturale che vive ancora nella proiezione imperiale della propria identità. Non un attore convenzionale, ma una nazione che si oppone alla modernità europea proprio attraverso l’uso sistematico della guerra come strumento di restaurazione storica. “Un Paese che non riesce a immaginare il futuro e per questo agisce per riportare il mondo al passato”, scrive Zafesova.
Trump, in questi mesi, ha dimostrato di non comprendere questa logica. Ha interpretato la guerra in Ucraina come una crisi bilaterale da gestire con pressioni e incentivi, ignorando che per il Cremlino il conflitto è invece un passaggio necessario di un progetto imperiale, non negoziabile se non attraverso la resa dell’Ucraina. La sua sospensione delle forniture militari – motivata da esigenze di “priorità nazionale” – è stata letta da Mosca come un segnale di debolezza occidentale. Lo stesso Cremlino, secondo fonti autorevoli, ha accolto con entusiasmo la notizia dello stop americano agli armamenti, vedendola come un via libera a intensificare gli attacchi.
Questo equivoco strategico da parte di Trump non è una colpa veniale: ha compromesso la credibilità degli Stati Uniti. Mentre il mondo osservava se Washington avrebbe dato seguito concreto alle parole di sostegno a Kyiv, Trump ha girato attorno alla questione, alimentando divisioni e dubbio. Ogni indecisione è stata letta a Mosca come un segno di debolezza: e un impero – quello russo – che non sa morire non si fa scrupoli a sfruttare i segnali di incertezza. Il risultato? Un saldo strategico netto: Trump ha conferito al Cremlino spazio operativo, indebolito l’unità occidentale e favorito la prosecuzione di un’aggressione sistematica.

L’effetto reale è duplice: da un lato, l’Ucraina si trova davanti a un muro di incertezze, tra aspettative mal riposte e conseguente necessità di contrasto. Dall’altro, gli Stati Uniti perdono autorevolezza: se Washington non riesce a leggere né la struttura ideologica di Mosca né a tradurre le proprie parole in azioni di deterrenza, la sua voce si indebolisce nel consesso globale, soprattutto tra gli alleati europei.
In conclusione, Trump paga dazio per un approccio semplificato che concepisce Putin come attore razionalistico, negoziabile, piuttosto che come portavoce di una narrazione imperiale. Nel momento in cui annuncia sanzioni – forse – il credito politico e la fiducia internazionale americana sono già stati erosi. E l’Ucraina, nel frattempo, appare sempre più isolata, esposta a un aggressore che crede fermamente nella “potenza” che la storia gli concede. Senza una capacità di interpretare quella visione ideologica, né una determinazione nel contrastarla, gli Stati Uniti rischiano di uscirne indeboliti – e di pagare un prezzo molto alto in termini di sicurezza globale.