“Su Europa e questioni globali, PLD offre buon senso e sfida il senso comune”. Intervista a Luigi Marattin

Sabato 28 e domenica 29 giugno si terrà a San Lazzaro di Savena (BO) il primo congresso del Partito Liberaldemocratico. Frutto dell’unione di quattro sigle dell’area liberal (NOS-Orizzonti Liberali-Libdem Europei-Liberal Forum); da quattro mesi il PLD si sta mobilitando con proposte articolate e iniziative in tutta Italia per farsi conoscere e attrarre iscritti, inserendosi al centro dell’area politica liberaldemocratica.
Al Congresso verranno eletti gli organi nazionali e il Segretario, con Luigi Marattin come candidato unitario. In vista degli impegni congressuali, abbiamo intervistato l’onorevole Marattin, affrontando i temi principali di politica nazionale e internazionale. Di seguito potete leggere l’intervista integrale.

Domenica diventerà il segretario del Partito Liberal Democratico, nuova formazione di area liberale nata l’8 marzo scorso. Senza fare troppi giri di parole, dove si immagina il PLD tra 5 anni?
Come parte di un’unica offerta politica liberal-riformatrice e alternativa ai due poli di centrodestra e centrosinistra. E che, grazie all’ottimo risultato alle elezioni politiche del 2027, avrà per la prima volta in tanti anni contribuito (anzi determinato) un governo “populist-free”.
In un contesto globale ed europeo segnato da incertezza e paura — da sempre fattori che polarizzano il voto — state proponendo un progetto terzopolista, equidistante dai due poli tradizionali. È fiducioso di trovare risposta positiva degli italiani? E perché?
Tutte le volte che un progetto terzopolista di stampo liberaldemocratico si è presentato alle elezioni (nel 2013 e nel 2022) ha sempre raccolto l’8%-10% dei voti. Ma il potenziale è secondo me – e secondo tutti gli istituti demoscopici – anche superiore, forse intorno al 15%.
I problemi sono due. Il primo è che entrambe le volte che si è presentato ottenendo risultati apprezzabili, dopo pochi mesi si è suicidato. Il secondo è convincere i soggetti di quest’area politica (che non sono così tanti come alcuni giornali si ostinano a rappresentare) che tra noi la cooperazione frutta molto più della competizione.
Il 2025 è l’anno di Donald Trump. Il preannunciato tsunami nelle relazioni internazionali è arrivato, assumendo forme molto imprevedibili ma certamente distanti anni luce dalle aspettative pacifiste di numerosi commentatori, soprattutto nostrani. Che ruolo dovrebbe giocare l’Europa in questo scenario? E in particolare, come giudica la postura del nostro Presidente del Consiglio Giorgia Meloni di fronte all’alleato atlantico?
Fin da quando esiste l’uomo, nelle relazioni internazionali ci si afferma se si è forti dal punto di vista economico, tecnologico e militare. Inutile giocare alle “belle addormentate nel bosco”. Quindi se vuole contare nel mondo, l’Europa deve rafforzarsi economicamente (creando un mercato davvero unico, e le necessarie riforme sia economiche che istituzionali), tornare ad avere capacità di innovazione in grado di trainare il “Pil del futuro” e costruire una interoperabilità maggiore delle forze armate nazionali per avere, in prospettiva, quando l’unità politica permetterà l’elezione di un’autorità politica unica, un esercito comune.
Quanto alla Meloni, è stato evidente il suo tentativo di porsi come “ponte” tra UE e USA. Dimenticando però che quei ponti esistono già, e sono rodati da decenni, chiunque siano i leader pro-tempore delle nazioni e qualunque siano le posture assunte pubblicamente. In ogni caso, soprattutto considerando come aveva costruito il suo consenso politico nel decennio 2013-2022, Giorgia Meloni in politica estera non si sta muovendo male.

Parlando di Europa, voi del PLD vi siete recentemente impegnati moltissimo nella realizzazione della 3 giorni “L’Europa nelle strade”, con banchetti nelle vie di tutta Italia. Qual è a suo avviso la chiave per trasmettere la necessità di costruire una nuova Europa al cosiddetto elettore medio, fuori dai soliti circoli intellettuali e politici?
Tempo fa si pensava che bastasse mettere i cartelli di fronte alle opere pubbliche con scritto “Questa opera è stata costruita con i fondi europei”. Sa cosa penso? Che sia più utile Eurovision di migliaia di dotte disquisizioni. Allo stesso modo un Tg europeo, un campionato di calcio europeo (la nuova formula della Champions League è un chiaro tentativo di avvicinamento). Oppure potenziare 10 volte tanto gli scambi studenteschi e lavorativi. Ad esempio: le pare normale che sia ancora una fatica di Ercole farsi riconoscere i titoli di studio e gli esami conseguiti in un altro stato UE?
Non mi sembra per nulla normale. A proposito di Europa, noi de L’Europeista organizzeremo a novembre gli “stati generali dell’europeismo italiano”, coinvolgendo associazioni, partiti e media. Oltre ovviamente ad estendere l’invito al PLD le chiedo: è arrivato il momento di un cambio di paradigma politico, considerando gli affari europei come questioni di politica interna e non estera?
Apprezzando e accogliendo l’invito le rispondo che per noi il cambio di paradigma è già realtà. La nostra responsabile-Europa in segreteria nazionale si chiama “responsabile per gli affari interni”. Intendendo ovviamente affari europei. E poi avremo la responsabile esteri, che si occuperà di quello che accade extra-Ue.
Le vicende di questi giorni ci proiettano fuori dall’Europa, più precisamente in Medio Oriente. Scenario delicato e incendiario, oltre che tema politico iper-polarizzante nell’opinione pubblica europea. Qual è la vostra posizione sul conflitto in Iran e, separatamente, su quello a Gaza? E come si differenzia dalle posizioni espresse dagli altri partiti italiani?
Si differenzia parecchio perché tutti sembrano aver paura a sfidare il “senso comune” che pare aver preso il sopravvento, soprattutto tra i giovani. Noi invece preferiamo, anche a costo di prenderci qualche critica o di discutere un po’ più a fondo al nostro interno, parlare di “buon senso”.
Sull’Iran. È un fatto assodato che i colloqui diplomatici non stessero affatto interrompendo il processo di arricchimento dell’uranio, che può avere un solo scopo (costruire delle armi atomiche). E quando la diplomazia fallisce, con le dittature aggressive ci vuole la forza. Se vogliamo contestare questo concetto, allora ci tocca contestare anche il modo in cui nacque la Repubblica italiana. In generale, il PLD non vede l’ora di organizzare una grande manifestazione di giubilo quando il regime iraniano cadrà, e quella stupenda popolazione (per più della metà composta da giovani sui 30 anni) sarà finalmente libera.
Su Gaza la situazione è ovviamente più complessa. Nessun essere umano può essere insensibile di fronte al disastro umanitario, e nessuno secondo me può esimersi dal condannare la politica di Netanyahu, che dovrebbe sapere che il solo strumento militare è inutile quando si affronta un nemico che si nasconde vigliaccamente tra la popolazione civile (lo insegna il Vietnam, tra i mille altri esempi).
Ma io penso che troppo spesso si dimentichi che anche in questo conflitto c’è un aggredito e un aggressore. L’aggredito è ovviamente lo Stato di Israele, che fin dalle 24 ore successive alla sua fondazione (il 14 maggio 1948) è stato aggredito in armi dai suoi vicini. E poi ancora nel 1956, nel 1967, nel 1973. E ovviamente quel maledetto 7 ottobre. È evidente poi che in un conflitto che si trascina da 80 anni si cumulino atrocità reciproche da ambo le parti.
E non dimentichiamo che nel 2005, col ritiro israeliano da Gaza, Hamas aveva l’opportunità di fare come l’Ira in Irlanda del Nord negli anni 2000 o nei mesi scorsi il Pkk turco: abbandonare la lotta armata e mostrare al mondo come una parte di stato palestinese può essere auto-governato. Invece Hamas ha cacciato l’Autorità palestinese con le armi, e ha usato le risorse delle monarchie del golfo non per sviluppo e welfare, ma per scavare tunnel, comprare armi e usarle per perseguire il suo obiettivo di cancellare Israele.

In Parlamento la sua è stata forse la voce più critica nei confronti di Giorgia Meloni per l’attendismo italiano relativamente alla ratificazione dell’Accordo di libero scambio UE-Mercosur. La diffidenza in merito non è solo del governo, ma anche delle opposizioni- uniti in quello che lei chiama il “partito unico anti-mercato”. Da cosa nasce questa reticenza, nonostante i buoni risultati storici degli accordi commerciali preferenziali?
Un po’ dal populismo (che, appunto, ha le redini “culturali” dei due schieramenti), che trae linfa vitale dall’identificazione di nemici esterni: il Mes, le banche centrali, i mercati finanziari o gli accordi di libero scambio.
E un po’ da certe associazioni di categoria, a cui il libero mercato non piace. Perché preferiscono dominare nel mercato domestico (magari protetti dalla politica), invece che cogliere l’opportunità di competere nei mercati (esteri e interni).
Infine, parafrasando un celebre politologo: “la tenuta delle democrazie dipende dall’integrità delle opposizioni”; le chiedo: dove e quando si sono perse le opposizioni nostrane? E’ ancora possibile costruire un fronte unitario di tutte le opposizioni-PLD compreso- alternativo al governo?
Non si può fare. Il Campo Largo non ha nulla a che fare con noi (e, mi permetto di parlare in casa d’altri, secondo me neanche con Azione). Non abbiamo niente in comune con loro: né la politica sul mercato del lavoro, né sull’energia, né quella estera, né la giustizia.
Questo accade perché il centrosinistra di oggi non è neanche un lontano parente di quello non solo di Renzi del 2015, ma anche di Veltroni del 2008. O per alcuni aspetti persino di D’Alema a metà anni 90: si ricorda quando lui, da segretario dei Ds, in un congresso osò criticare la Cgil di Cofferati (che rispetto a quella di Landini è Milei!) per il troppo conservatorismo? O quando, da presidente della Bicamerale, fece votare dal centrosinistra la separazione delle carriere in magistratura? Perché questa involuzione? Perché per motivi a me sconosciuti a un certo punto hanno pensato che si potesse battere il populismo opponendo altro populismo. Non è così.
Nei prossimi due anni secondo me dobbiamo costruire e consolidare il fronte liberaldemoratico e riformatore, capendo che insieme raggiungiamo molto più della somma di quello che potremmo raggiungere da soli (e che a conti fatti, essendo dispersi, sarebbe inutile). E avere il coraggio di presentarci da soli alle elezioni, offrendo agli italiani che non vogliono né Salvini ministro dell’Interno né Landini ministro del lavoro (o Conte ministro degli Esteri) l’opportunità di essere decisivi.
Il solo voto utile, tra due anni, sarà a noi. Utile a ricacciare i populisti – di destra e di sinistra – da dove sono venuti.