Erdogan e la minaccia di una nuova “crisi migratoria”: un ricatto a cui non cedere

Piercamillo Falasca
21/06/2025
Orizzonti

Gli attacchi israeliani sull’Iran potrebbero causare una nuova crisi migratoria“. Mentre il mondo osserva con crescente inquietudine l’escalation militare tra Israele e Iran, un’ombra “familiare” si staglia sull’orizzonte europeo: la minaccia di una nuova crisi migratoria verso l’Europa, agitata – ancora una volta – dal presidente turco Recep Tayyip Erdoğan (ma dovremmo chiamarlo dittatore, come fece Mario Draghi da Palazzo Chigi) come leva di pressione politica. Il messaggio non è neppure troppo velato: se l’Unione Europea non prenderà le sue distanze da Israele, e se non asseconda le richieste turche su altri dossier regionali, allora le sue frontiere potrebbero essere travolte da una nuova ondata migratoria.

Il gioco è noto. Lo abbiamo visto nel 2015, lo abbiamo rivisto nel 2020, quando Erdoğan aprì simbolicamente le porte dei campi profughi e spinse migliaia di migranti verso il confine greco. Oggi il copione si ripete, ma in un contesto ancora più teso, con la guerra tra Israele e Iran che rischia di incendiare l’intero Medio Oriente e destabilizzare anche paesi finora relativamente stabili come l’Iraq o il Libano.

La Turchia ospita attualmente più di 3 milioni di rifugiati, principalmente siriani, ma anche afghani, iracheni e iraniani. Ankara li utilizza come una banca geopolitica: una riserva da cui attingere ogni volta che vuole influenzare le scelte di Bruxelles o battere cassa, minacciando il loro rilascio verso il confine europeo. Quello che viene presentato come un impegno umanitario è, in realtà, uno strumento di ricatto politico, perfettamente consapevole e ormai abituale.

In questo contesto, le presunte preoccupazioni di Erdoğan per le sorti del popolo iraniano appaiono ipocrite. In Siria, Turchia e Iran sono stati spesso nemici diretti: Ankara ha sostenuto le milizie sunnite contro Assad, alleato di Teheran, e ha combattuto attivamente contro le forze sciite appoggiate dal regime iraniano. Le accuse al governo israeliano non nascono da una reale solidarietà verso l’Iran, ma da una strategia mirata a riposizionarsi come potenza centrale nella regione e, soprattutto, ad accrescere il proprio peso contrattuale con gli Stati Uniti e l’Unione Europea.

Non è un caso che, proprio in questi giorni, Ankara abbia rilanciato il suo nazionalismo marittimo presentando all’UNESCO una nuova mappa di pianificazione marittima, ispirata alla Blue Homeland Doctrine, che estende in modo provocatorio le pretese turche nell’Egeo e nel Mediterraneo orientale. Un gesto che ha immediatamente riacceso la tensione con la Grecia.



Dietro ogni dichiarazione sulla “sofferenza dei civili” o sul “diritto internazionale” si cela, in realtà, l’interesse personale del leader turco, che da anni si muove in equilibrio tra NATO, Russia, Cina e mondo arabo, cercando di trarne sempre il massimo beneficio per sé stesso e per il suo regime autoritario. Erdoğan non cerca la pace in Medio Oriente: cerca un nuovo spazio di manovra per rafforzare il suo potere interno ed esterno, in un momento in cui l’economia turca è sotto pressione, l’inflazione galoppa e le opposizioni tornano a farsi sentire.

L’Europa farebbe un grave errore a farsi nuovamente intrappolare in questo meccanismo. Invece di lasciarsi intimidire dal ricatto migratorio, dovrebbe finalmente costruire una politica estera autonoma, che sappia distinguere tra gli attori regionali e riconoscere – senza ambiguità – chi si comporta da alleato, chi da avversario e chi da abile manipolatore. Perché un’Europa forte e consapevole non si lascia ricattare. Un’Europa debole, invece, continuerà a essere oggetto dei giochi altrui.